Ho
un bisogno fisico del sole, senza il quale mi ammoscio. Sospetto da
tempo di funzionare a energia solare. Ma proprio quando stavo per
esaurirmi definitivamente, sono arrivati questi primi raggi di sole a
scaldarmi le ossa e mentre le gemme germogliano, le giornate si
allungano, le gonne si accorciano, a me si risveglia la voglia di
partire, di andare e di fare.
Questo
è il periodo in cui, in passato, la fregola del risveglio primaverile
mi ha portato a fare cose come partire per far due chiacchiere con le
tribù indiane dei Navajo in compagnia di sciamannati convinti assertori
che “L’Arizona è bella, è un po’ come la Rovigo d’America”, trascorrere
ore a tentare di insegnare la filastrocca della viola del pensiero agli
scoiattoli di Central Park, (dove gli scoiattoli erano alti 1.90, neri e
in tuta da jogging), scorrazzare per Monterey alla ricerca delle tracce
di Zorro e del Sergente Garcia o, in mancanza d’altro, anche del servo
muto Bernardo, nella segreta speranza di incontrare un Don Diego de La
Vega magari imbolsito ma con la mente ancora lucida con cui dividere
simpatici aneddoti di quando combatteva contro quel puzzone del Re di
Spagna. Per due anni anche fatto volontariato lavando piatti
gratuitamente per una causa che adesso combatterei, non fosse altro
perché stride profondamente con le mie più intime convinzioni sulla
manicure.
Però
si vede che sto invecchiando perché quest’anno resterei in Italia.
Dovessi partire adesso, in questo momento, tornerei in Sicilia,
soprattutto nelle zone che preferisco, che sono quelle intorno a
Catania. Vorrei svegliarmi ad Acireale, fare colazione da Condorelli
con la granita mandorla e gelsi come solo lui sa fare, mangiare gli
involtini di spada alla Vecchia Aci, intossicarmi con carne sconosciuta
da Ziu Paolo (3 figli, tanta buona volontà, nessuna licenza). Peccato
non sia periodo della festa di Sant’Agata, perché i festeggiamenti cui
ho assistito hanno relegato a semplice scoppio di petardi anche
l’apertura dei giochi olimpici di Sidney.
Oppure
tornerei in Liguria, magari ad Andora, dove finirei però per
sprofondare nei ricordi: i lunghi pomeriggi in cui morivo per un
ragazzino che sapeva fare le impennate con la bici cross, abilità questa
che lo collocava senza discussione alcuna nell’olimpo dei fichissimi;
la colletta dopo la spiaggia per comprare la focaccia, che ne ho
mangiate tante ma di quella ancora sento il profumo. O di quando
volevamo fare le grandi con il lucido sulle labbra e il gel per tenere a
bada i ricci, prima che un decennio di piastra li rendesse lisci, ma
poi il divertimento più grande erano sempre le battaglie con le pistole
ad acqua e mettere gli stuzzicadenti nei citofoni.
Ricorderei
però anche i pranzi della domenica sulle collinette con vista sul mare,
con le lotte estenuanti dei miei genitori per farmi mangiare. Non
rovinare la giornata a tutti, diceva la mamma. Non ti alzi se non hai
ripulito il piatto, diceva papà. E finiva sempre con musi lunghi e con
me che saltavo il pasto. Mia mamma si vergognava della mia magrezza,
sentiva sempre il bisogno di giustificarsi, per paura forse che qualcuno
lo interpretasse come il suo fallimento come madre o più semplicemente,
come cuoca.
Loro
non lo sanno, ma il primo piatto di spaghetti l’ho mangiato a 22 anni,
quando sono andata ad abitare per conto mio e ho finalmente capito che
le prove di forza erano finite. Mio papà morirebbe se sapesse che pane e
pasta sono adesso la base della mia alimentazione.
Però
basta con questi ricordi, ho voglia di crearne di nuovi, ho necessità
di cancellare la nostalgia e di vivere sentimenti finalmente adulti. E
quindi… quindi, non potendo partire, oggi mi godo comunque una bella
passeggiata per il sole, lungo la strada che costeggia il canale, che a
voler essere positivi fino in fondo è meno affollata della Rive Gauche,
meno fredda di quella del Nihavn e piena di gente e bar come il corso
di Siracusa. E allora, che mi manca a me? Niente. Quindi vado a mettermi
le scarpe e vado. Ciao guys.
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