Non
volevo fare un altro post su un film, lo dico subito. Ma poi ho visto
questo pippone di quasi 3 ore, roboante, violento e circense e non ho
potuto farne a meno. Perché?
Perché
è bellissimo, perché ha un ritmo che ti cattura, ti ingroppa le budella
e non te le molla più, perché dentro c’è tutto Tarantino (che piaccia o
dispiaccia, è uno che il cinema lo sa fare e non ci sono giuggiole che
tengano), perché ha una colonna sonora che sembra una raccolta di cover
ficcata a forza nella cassettina del mangianastri. Perché è glamour
(“Come sarebbe a dire non sei uno schiavo… vorresti dirmi che ti vesti
così per scelta?!”), perché è brillante, pungente, divertente, splatter
quanto basta e con dei dialoghi essenziali ed eleganti insieme, in un
parlato semplice ma intelligente che vorrei sentir parlare al
telegiornale.
La
storia d’amore c’è, ed è la molla che spinge Django a ribaltare
condizionamenti sociali, pregiudizi e pessime tradizioni dure a morire;
ma resta inevitabilmente sullo sfondo, perché è privata, privatissima,
come solo le vere storie d’amore possono essere; e perché non c’è nulla
da dire, alla fine, perché dell’amore tutto è già stato detto e scritto:
l’amore è originale e unico solo per chi lo vive in quel momento.
No, il concetto chiave del film non è l’amore che smuove le montagne ed esalta i cuori, ma la concezione che si nasca con un futuro già scritto, un destino già geneticamente segnato.
E
se vi sembrano cazzate d’altri tempi venite a fare un giro dalle mie
parti, dove le etichette si danno via come il pane: il marocchino è
inaffidabile e poi non ha voglia di lavorare; il polacco è bravo a fare
il muratore e l’idraulico ma caspita quanto beve, l’albanese ti ammazza
anche il gatto, il cane e la suocera per 2 euro, il rumeno si ubriaca,
fa casino e ti ruba anche la biancheria che indossi; e la rumena… be’,
diciamo che è brava a fare altre cose.
Ma
niente è scritto, nel bene e nel male, e la genetica non può essere una
giustificazione per i nostri errori. Come non possono essere
giustificazioni le circostanze, gli umori, le reazioni altrui e i
momenti sbagliati. Siamo quello che siamo, inteso come quello che ogni
giorno scegliamo di essere. E quello che siamo, fortunatamente, non è
necessariamente quello che saremo: perché il margine di cambiamento
esiste sempre.
E non so voi, ma questo a me mi fa stare serena. (Le sgrammaticature un po’ meno).
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