martedì 28 febbraio 2012

Io e lui

Il rapporto con mio padre non è mai stato semplice. O forse lo è stato fin troppo e io non voglio accettare che sia solo questo, che sia tutto qui.
Non ricordo che mio padre mi abbia mai fatto gli auguri di compleanno, non ricordo di aver mai ricevuto un complimento da lui. Mai. Non ricordo la sua commozione quando mi ha accompagnata all’altare, non ricordo né un gesto né una parola affettuosa. Non li ricordo perché non ci sono mai stati.
Ricordo molto bene invece l’atmosfera familiare scandita dal suo umore, le promesse non mantenute e le critiche aspre; perché avevo troppi capelli, per come camminavo, perché ero troppo magra, perché ridevo troppo, perché parlavo troppo poco, perché leggevo, per quello che leggevo… qualsiasi cosa. Ricordo che ha sempre preteso di vedere tutti i miei compiti di italiano e ho chiare nella mente le ore trascorse in piedi davanti a lui che demoliva e denigrava con cattiveria e metodo ogni riga, ogni parola, prendendo in giro ogni mio pensiero. E siccome i voti erano sempre alti, se la prendeva anche con gli insegnanti, evidentemente incapaci di giudicare. Credo abbia vissuto come una sconfitta personale ogni volta che un mio tema veniva scelto per un concorso e che, viceversa, abbia esultato ogni volta che non vincevo il primo premio, ravvisando in questo una sorta di giustizia. A chi, amici ed insegnanti, nel corso degli anni mi ha chiesto perché non ho mai provato a scrivere seriamente, avrei voluto rispondere, “per non dare un dispiacere a mio padre”.
In realtà io scrivevo. Scrivevo qualsiasi cosa. Lettere. Diari. Bigliettini. Di invito, di ringraziamento, di scuse. Soprattutto, scrivevo necrologi. Quasi sempre il suo. A dire il vero non ho mai desiderato veramente la sua morte; ancora adesso penso che sarebbe forse la cosa peggiore, perché se posso affrontare un rapporto complicato, non sarei capace di reggere gli strascichi di un rapporto non risolto. Troppe le cose non dette, troppe le cose urlate e non pensate.
Oggi mi ha detto che sono la figlia che non avrebbe mai voluto avere. Nemmeno io vorrei essere quella figlia, perché non vorrei avere questo padre.
Oggi è un giorno in cui vorrei essere orfana.
 

domenica 26 febbraio 2012

Essere e apparire

Che se ti ripetono spesso “sembri sempre una ragazzina”, finisce che un po’ tu ci credi e quando la temperatura si alza di mezzo grado e il sole fa finalmente cucù fra le nubi, ti liberi subito dei 7 metri dello sciarpone della nonna, del chilo e due del berrettone da puffo buffo e getti dalla finestra il piumino che fino al giorno prima ti avrebbero dovuto strappare a morsi. E accarezzi anche l’idea di metterti un po’ in terrazzo, perché si sa, il primo sole è quello che regala il colore più bello. E succede che te ne vai in giro tutto il pomeriggio facendo la splendida con il giubbettino aperto,  massì facciamoci una bella biciclettata, che importa se l’ultima volta che ho pedalato avevo ancora le rotelle sul triciclo, ahahahahah sì sì corriamo dai,  che bello, oh come si sudaaaaaa…! 

E poi verso le 6.00 senti come uno strano senso di fastidio alla base del collo. Alle 8.00 non riesci a tagliare la bistecca perché il solo impugnare il coltello ti scatena la ribellione incontrollata della settima vertebra cervicale e alle 9.00 te ne stai distesa immobile sulla schiena sperando solo che arrivi presto un sonno misericordioso a liberarti da quest’agonia.

E stai così male che il giorno dopo ti sentirai una signora solo per riuscire a guardare fisso davanti a te e a leggere le prime 3 righe di qualche post, anche se la lettura delle righe più sotto dovrà per forza di cose essere rimandata a momenti più fausti, quando potrai ancora permetterti di fare cose complicate come abbassare la testa o fare graziosamente sì e no. 

Nel frattempo potrai riflettere con calma. Sul fatto che le persone vanno ascoltate, per esempio. E che nella frase “sembri sempre una ragazzina”, la parola chiave non è ragazzina, come hai frettolosamente recepito tu, ma sembri. E quando invece adesso ti dicono sei sempre la solita cretina, le parole chiave sono due: sei e cretina. Ci sarebbe anche quel sempre, volendo, ma evitiamo di infierire. Però mentre rifletti, fa’ una bella cosa: TIENITI LA SCIARPA, CRETINA.

 

giovedì 23 febbraio 2012

E' che mi esaurisco

Ho un bisogno fisico del sole, senza il quale mi ammoscio. Sospetto da tempo di funzionare a energia solare. Ma proprio quando stavo per esaurirmi definitivamente, sono arrivati questi primi raggi di sole a scaldarmi le ossa e mentre le gemme germogliano, le giornate si allungano, le gonne si accorciano, a me si risveglia la voglia di partire, di andare e di fare.
Questo è il periodo in cui, in passato, la fregola del risveglio primaverile mi ha portato a fare cose come partire per far due chiacchiere con le tribù indiane dei Navajo in compagnia di sciamannati convinti assertori che “L’Arizona è bella, è un po’ come la Rovigo d’America”, trascorrere ore a tentare di insegnare la filastrocca della viola del pensiero agli scoiattoli di Central Park, (dove gli scoiattoli erano alti 1.90, neri e in tuta da jogging), scorrazzare per Monterey alla ricerca delle tracce di Zorro e del Sergente Garcia o, in mancanza d’altro, anche del servo muto Bernardo, nella segreta speranza di incontrare un Don Diego de La Vega magari imbolsito ma con la mente ancora lucida con cui dividere simpatici aneddoti di quando combatteva contro quel puzzone del Re di Spagna. Per due anni anche fatto volontariato lavando piatti gratuitamente per una causa che adesso combatterei, non fosse altro perché stride profondamente con le mie più intime convinzioni sulla manicure.
Però si vede che sto invecchiando perché quest’anno resterei in Italia. Dovessi partire adesso, in questo momento, tornerei in Sicilia, soprattutto nelle zone che preferisco, che sono quelle intorno a Catania. Vorrei svegliarmi ad Acireale,  fare colazione da Condorelli con la granita mandorla e gelsi come solo lui sa fare, mangiare gli involtini di spada alla Vecchia Aci, intossicarmi con carne sconosciuta da Ziu Paolo (3 figli, tanta buona volontà, nessuna licenza). Peccato non sia periodo della festa di Sant’Agata, perché i festeggiamenti cui ho assistito hanno relegato a semplice scoppio di petardi anche l’apertura dei giochi olimpici di Sidney.
Oppure tornerei in Liguria, magari ad Andora, dove finirei però per sprofondare nei ricordi: i lunghi pomeriggi in cui morivo per un ragazzino che sapeva fare le impennate con la bici cross, abilità questa che lo collocava senza discussione alcuna nell’olimpo dei fichissimi; la colletta dopo la spiaggia per comprare la focaccia, che ne ho mangiate tante ma di quella ancora sento il profumo. O di quando volevamo fare le grandi con il lucido sulle labbra e il gel per tenere a bada i ricci, prima che un decennio di piastra li rendesse lisci, ma poi il divertimento più grande erano sempre le battaglie con le pistole ad acqua e mettere gli stuzzicadenti nei citofoni.
Ricorderei però anche i pranzi della domenica sulle collinette con vista sul mare, con le lotte estenuanti dei miei genitori per farmi mangiare. Non rovinare la giornata a tutti, diceva la mamma. Non ti alzi se non hai ripulito il piatto, diceva papà. E finiva sempre con musi lunghi e con me che saltavo il pasto. Mia mamma si vergognava della mia magrezza, sentiva sempre il bisogno di giustificarsi, per paura forse che qualcuno lo interpretasse come il suo fallimento come madre o più semplicemente, come cuoca.
Loro non lo sanno, ma il primo piatto di spaghetti l’ho mangiato a 22 anni, quando sono andata ad abitare per conto mio e ho finalmente capito che le prove di forza erano finite. Mio papà morirebbe se sapesse che pane e pasta sono adesso la base della mia alimentazione.
Però basta con questi ricordi, ho voglia di crearne di nuovi, ho necessità di cancellare la nostalgia e di vivere sentimenti finalmente adulti. E quindi… quindi, non potendo partire, oggi mi godo comunque una bella passeggiata per il sole, lungo la strada che costeggia il canale, che a voler essere positivi fino in fondo è  meno affollata della Rive Gauche, meno fredda di quella del Nihavn e piena di gente e bar come il corso di Siracusa. E allora, che mi manca a me? Niente. Quindi vado a mettermi le scarpe e vado. Ciao guys.

sabato 18 febbraio 2012

M'illumino di meno

Conoscete l’iniziativa di M’Illumino di Meno? Per chi non seguisse Radio 2 o per quelli che abitano in una caverna senza allacciamento alla corrente elettrica oppure hanno sviluppato sensi molto selettivi e atti a captare solo notizie su Sanremo, spiego che cos’è: è una campagna radiofonica sul risparmio energetico, lanciata credo 8 anni fa dalla trasmissione Caterpillar, finalizzata alla razionalizzazione dei consumi e alla conseguente riduzione degli sprechi.

Siccome la zona dove abito io si trova sì nell’ombelico del mondo, ma è abitata anche da personcine erudite e virtuose (soprattutto se c’è da risparmiare 2 euro), alcuni pubblici esercizi hanno scelto di aderire all’iniziativa e di organizzare serate a tema. Dal momento però che spegnere le luci e basta sarà sì molto ecologico ma fa anche tanto bar bulgaro, e il pericolo è che la fregola da risparmio arrivi anche alle consumazioni, il bar dove mi trovavo io per l’aperitivo ha distribuito candele ovunque, sia all’interno che all’esterno, così invece che in un paese dell’est gli avventori potevano avere l’impressione di trovarsi nel bel mezzo di un rito votivo.

Poi ho il dubbio che il barista si sia fatto un po’ prendere la mano e soprattutto dagli spritz, perché ad un certo punto ha anche suggerito di spegnere il registratore di cassa. Ma è durato solo un attimo.

La vera perla della serata è stato però un duo (chitarra e voce), la cui cantante già dopo la prima canzone aveva tirato su un’atmosfera patinata ed elegante degna di Shade ai tempi di Smooth Operator. Quando ha cantato You Gotta Be  la serata aveva raggiunto livelli tali di sciccheria che non sarebbe potuta scadere neanche se il barista si fosse tenuto i crostini dentro i pantaloni per mantenerli al caldo. Per dire il livello di raffinatezza.

E lì ho capito che cosa sia un dono: non mi intendo di musica e probabilmente non riuscirei a riconoscere il talento nemmeno se mi battesse sulla spalla, ma credo di essere in grado di apprezzare un dono quando me lo trovo davanti. E lei ha quello di cantare e di emozionare. Sennò non si spiega come abbia potuto mantenere alta l’attenzione di tanta gente per 2 ore, soprattutto se si considera l’eterogeneità di siffatto pubblico. Si spaziava infatti dalla simil-velina convinta che il vestitino tigrato fosse ironico (e in effetti io ho riso), al 40enne che si crede giovane solo perché riesce a fare le stesse cazzate che farebbe un 13enne. Il tipo con la cresta e l’aria di quello che si risveglia puntualmente il lunedì mattina con vestiti non suoi l’ho volutamente ignorato. Ma erano tutti lì ad ascoltare lei, e ditemi voi se non è un dono questo.

Tornata a casa ho poi scoperto di aver dimenticato il forno acceso per tutto il pomeriggio e allora ho capito un’altra cosa: non importa quanto forte sia la sensibilizzazione esterna se tu per primo non sei consapevole e non collabori in prima persona. E soprattutto ho capito che se sei un pirla, spesso rimani tale.


 

giovedì 16 febbraio 2012

Di pregiudizi e di vita

Mi piace il pesce e ogni tanto lo cucino anche. Ma non lo compro dal pescivendolo, preferisco andare direttamente da un pescatore che si chiama Gaetano. Al suo ritorno a casa dopo una nottata di lavoro c’è sempre un gruppetto di donne ad attenderlo e a mettergli fretta. Lui tira giù dal camion le sue cassette, pesa, impacchetta, ascolta impassibile il vivace scambio di ricette e di consigli. Dice buongiorno, grazie. Raramente aggiunge qualche parola in più.
L’aspetto un po’ lo penalizza, devo dire. Non che sia brutto, ma ha l’aria un po’ equivoca di uno che passa il suo tempo a mettere banconote negli slip di signorine con la quinta. Ha le mani tagliate dalle reti e la faccia segnata dal freddo, dalla fatica e da una vita fatta solo di dispiaceri, sempre vessato da un fratello balordo e dalle sue continue richieste di soldi, culminate nelle violenze fisiche e nell’intervento della polizia una volta che Gaetano ha provato per la prima volta a dire di no.
E’ un omino timido, riservato, che è fin troppo facile catalogare come scorbutico. Ma è gentile. Ogni volta mi dice: “Lo pulisco io il pesce, perché TE, con quelle mani lì, non puoi saperlo fare.”
Un bel giorno Gaetano si è messo in casa una moldava conosciuta chissà dove e chissà come. “Ecco il Gaetano con la sua puttanissima moglie – diceva la gente quando lo incrociava -  così quello che gli lascia il fratello glielo porta via lei.”
Ma Gaetano non ha scelto un esserino capriccioso dedito alla messa in piega, quanto piuttosto un bel donnone buono per tutte le stagioni, con l’aria di una che stacca la testa alle anguille a mani nude e che il perizoma lo usa semmai come filo interdentale. E gli effetti del suo arrivo si sono visti subito: ha ripulito la casa, ha messo nuove tende alle finestre e soprattutto, ha cambiato la serratura. E adesso il fratello di lui per entrare deve suonare il campanello e chiedere permesso.
Non dovendo più mantenere quella fastidiosa sanguisuga, Gaetano si è finalmente visto due euro in tasca e adesso gira per la città con i suoi maglioncini sgargianti (perché la Gabriela è sì tanto brava, ma sempre moldava è) e ha anche messo su qualche chilo. Non sorride ancora, probabilmente perché non ha mai imparato, ma ha l’aria serena di chi é in pace con sé stesso.
“Se scegli guardando con gli occhi vorresti solo il pesce pregiato, come questi scampi o le capesante – mi ha detto un giorno – ma se guardi con gli occhi del buon senso, prendi il pesce più fresco. E magari porti a casa una cartoccio di sardine. Il bello è riuscire a fare qualcosa di buono con quello che ti capita.”
Ecco, io penso che Gabriela sia il suo personale cartoccio di sardine. E se guardo con gli occhi vedo l’ennesimo maschio un po’ avanti con l’età che si è messo in casa una straniera, ma se guardo con gli occhi del buon senso, vedo invece un uomo che ha finalmente trovato la sua strada.
Vai così Gaetano. TE sì che sei saggio.

martedì 14 febbraio 2012

Non vorrai mica festeggiare?

“Non vorrai mica festeggiare?” Se sento ancora una volta questa frase giuro che tiro fuori il badile. Anzi no. Tiro due sberle secche al malcapitato che la pronuncia. Fosse anche un gnoccone in canottiera ( a -10? Sì, perché se uno è figaccione ha anche dei doveri, se noi donne passiamo la vita sui tacchi è giusto che anche l’uomo soffra un minimo). Lo so che gli farei più male con una badilata, ma se se uno mi ripete ancora con quel sorrisino fra l’ironico e il pirla “Non vorrai mica festeggiare” io voglio proprio tirargli due sberle per sentirmi bruciare le mani. Altro che badile. La soddisfazione è tutta lì: nel bruciore dei palmi. Meglio se fumano.
Cosa vuol dire che San Valentino è una festa commerciale-banale-cretina-inventata dai fiorai e mantenuta in vita dai gestori delle carte di credito? E’ una festa e basta. E’ un’occasione per far vedere che tieni a una persona. Che già ci tieni tutti i giorni dell’anno, ma anche quel giorno lì. E poi non ho mai sentito nessuno dire che la Festa del Papà sia commerciale, per esempio, eppure mi pare che ogni anno si spendano migliaia di euro in cravatte, portafogli e orribili oggettini con la scritta “Al mio papone preferito dalla sua figlioletta Ely”. E per la Festa della Mamma? Dio solo sa quante lacrime vengono versate e quante rose vengano recise, eppure non si lamenta mai nessuno. E allora, solo San Valentino è commerciale? Scusate ma la cosa è un po’ sospetta e puzza di scusa. Non è che gli uomini sono normalmente disposti a fare uno sforzo unicamente quando si aspettano qualcosa in cambio? Perché allora il problema non sarebbe tanto la festa di San Valentino, quanto il fatto che si confonde il romanticismo con la prostituzione. Io ti regalo qualcosa perché tu mi dia qualcos’altro. Che a voler essere ottimisti è un baratto, ma a voler essere fiscali è un reato punibile per legge. E magari quelle stesse persone sono anche convinte che per far felice una donna sia necessario regalarle una carta di credito, creando una situazione dove la gratificazione di lei sarà anche probabile, ma i debiti di lui sono molto più certi.
E poi chi lo ha detto che le donne vogliono solo fiori-cioccolatini-regalini e cene al ristorante? Non è vero o forse non è sempre così. Io per esempio, voglio attenzioni. Voglio qualcuno che mi ascolti stasera e ogni altra sera, che mi “veda” e che non mi guardi e basta. Niente a che fare con soldi, cene e regali. Solo attenzioni, nient’altro che quelle. E dopo giorni di “sarò via ma forse torno ma magari no” l’sms che dice “torno tardi” non mi pare rientri nella categoria.
Non vorrai mica festeggiare, vero? No che non voglio. Perché dovrei voler qualcuno con cui fare delle cose carine quando posso trascorrere tutta la serata ad augurare la polmonite pleurica a chi ha reso popolare questa festa del piffero? Ma tanto per non fare proprio la mugugnona acida e restare anche in tema mi mangerò una scatola di cioccolatini facendo simpatiche barchette con i bigliettini d’amore, ed è già tanto che non me li fumi, possibilità questa, che non mi sento comunque di escludere a priori.
«L'amore è l'elemento in cui viviamo.
Senza di esso vegetiamo appena.»
(L. Byron)

Lord Byron, son 200 anni che fai il fenomeno… vorrei vedere se lo saresti ancora ai tempi degli sms.

lunedì 13 febbraio 2012

Di serata in serata

Sì lo so, avevo detto che sarei rimasta a casa a cercare il segreto segretissimo del magico soufflé e a guardar ballare Banderas, ma mi chiama Gianlu, con il quale ho diviso momenti indimenticabili come andare sull’altalena mostrando le mutande (io), tentare di riempirsi il pisello con la pistola ad acqua (lui), e a mettere la sabbia nella minestra della mensa (noi). Capisco che l’altro giorno ho detto lo stesso di Simo, ma che ci devo fare? Forse ho avuto troppi amici da piccola, e ormai è tardi per rimediare.
“Vengo dove vuoi – gli dico – basta che non mi porti in uno di quei posti da fighettoni che frequenti tu di solito.”
“Ma ti pare???” – dice lui. Infatti. Mi porta all’inaugurazione di uno di quei locali in cui il buttafuori ti guarda come guarderebbe l’umido caduto fuori dal furgoncino della differenziata. Vale a dire, i posti che io ODIO.
“Non ti senti trendy e fashionable?” – mi strizza l’occhio quel demente di Gianlu mentre sgomitiamo per entrare. Improvvisamente mi ricordo del perché una volta a casa sua gli abbia bagnato tutte le mutande e le abbia poi riposte nuovamente nel cassetto. Il giorno dopo aveva dovuto venire a scuola senza. Avendone la possibilità, adesso lo rifarei senza rimorsi. Magari ci aggiungerei anche i calzini.
“Non vedi quanta bellagggente?” dice mentre ci arrampichiamo su questi trespoli dove ci sta giusto mezza chiappa, non di più, bevendo una roba blu e verde e facendo anche finta di avere un’aria rilassata. Ma come faccio a rilassarmi se scivolo continuamente su questo caspita di sgabello?! Devo riconoscere però che la bella gente c’è. Due tipi in particolare, se ne stanno appoggiati al bancone, immobili. Sembrano eleganti e scolpiti come sculture di marmo… e proprio per questo, forse, scatenano in me solo l’istinto della casalinga perfetta e mi verrebbe di dargli al massimo una spolverata con il Pronto Casa.
“Ciao – mi si avvicina uno – non posso fare a meno di chiedertelo. Come fai ad essere così in forma?”
“Mah, non lo so… che carino, grazie.” Eccomi qua. Anni e anni che me la tiro con io ho studiato, possibile che gli uomini guardino solo il culo, poi mezzo complimento e già mi sdilinquisco.
“Fammi indovinare, non mangi carboidrati, vero? Fai batuka, zumba, gliding… tree climbing?”
A parte non capire una cippa di quello che dice (magari mi ha chiesto se faccio giochi erotici a pagamento e neanche me ne rendo conto), vorrei spiegargli che mangio di tutto ma che seguo uno stile di vita sano (niente ascensori, corsa tutti i giorni, lunghe passeggiate e che solo lo sforzo per non cadere da quel trespolo mi sta rafforzando gli addominali obliqui), ma quando attacca con il kamut, il farro, grano tenero e grano duro, mi prende la voglia di annegare la noia nel gin tonic e taglio corto con “Faccio la dieta dell’acqua.”
“Acqua e… nient’altro?”
“Ci aggiungo un po’ di limone. Sai, per il sapore…” gli dico con l’aria di confidargli un segreto. Mi guarda incredulo, come se gli avessi svelato come tramutare la cacca in oro, poi scuote la testa e fa: “Non so… non credo che riuscirei a farla.” Mi giro dall’altra parte prima che mi chieda come faccio ad allungare le ciglia.
Gianlu se la ride come un matto e mi presenta un suo conoscente. Domani gli annaffio anche le lenzuola, poi vediamo se ride ancora.
“Questo è Paolo – dice – sai, è appassionato di fumetti.” Bene, penso, a me piacciono le graphic novels. Se non fosse che quello attacca con una litania infinita delle peculiarità di supereroi, superpoteri e super-armi. Peggio di un catalogo. Dopo un’ora e un altro gin tonic non ne posso più. (Ma che c’hanno queste sedie? La cera?!) Quando mi dice che Mr. Fantastic dei Fantastici 4 si può allungare a dismisura sbotto: “Che bello, così potrà vantarsi di quanto ce l’ha lungo.” Mi guarda come se gli avessi offeso la madre e sputato nel bicchiere, ma prima che possa riprendersi e punirmi sfoderando una katana fluorescente afferro Gianlu e lo trascino fuori dal locale.
“Dì la verità: erano anni che non ti divertivi così.”, ha anche il coraggio di dire. Mi fermo un attimo e lo guardo: Gianlu e la sua faccia da culo.
Mi sa che domani passo a casa sua e gli bagno anche tutti gli asciugamani. Voglio proprio vederlo quando uscirà dalla doccia e si asciugherà con la carta igienica.
Ma adesso… Banderas, sono tutta tua. Chissà se sai fare anche il soufflé.

domenica 12 febbraio 2012

Di serate e di programmi


Siccome mio marito è via qualche giorno per lavoro, il mio programmino era: scoprire il segreto segretissimo del perfetto soufflé. Riguardare il dvd di Ti Va di Ballare, perché Banderas con il soufflé è la morte sua (ma anche con la minestrina, se è per quello). E se avanzava un po’ di tempo, affondare la testa nel barattolo dello zucchero.
Invece mi chiama Simo, amico d’infanzia con il quale ho diviso momenti indimenticabili come cantare Bianco Natale in seconda elementare, ciucciare chili di collane di caramelle continuando a tenersele al collo (che schifo), nonché tristissime festine di Carnevale con lui vestito da Zorro e io da spagnola (occasioni nelle quali quella burlona di mia mamma disegnava con la matita nera dei graziosi baffetti a lui e dei deliziosi riccioli tirabaci a me). C’è da chiedersi dove trovassimo il coraggio per riuscire addirittura a sorridere per le foto.
“Non star sempre lì a far la befana sul divano -  dice Simo - renditi presentabile che usciamo a bere qualcosa.”
Come resistere ad un invito fatto con tanto amore? Decido che il soufflé può aspettare e Banderas anche ed infatti dopo 10 minuti sono pronta ed usciamo. “Però tra un’ora voglio essere a casa”, dico.
Arriviamo che il locale è praticamente deserto, solo noi, alcuni amici di Simo e poche altre anime. Arrivano tutti più tardi, mi spiegano. Sono le 10.00, penso, ci sarà qualcuno che domani lavora? Sei antica, spiega Simo. Sarà. Comunque ammette di rimpiangere i bei tempi passati in cui si andava in disco la domenica pomeriggio dalle 3.00 alle 7.00, alle 7 e mezza si era in pizzeria per una margherita e 1 coca, e alle 9.00 si era già a casa e c’era ancora il tempo per ripassare matematica.
Però ha ragione lui: alle 10 e mezza il locale è strapieno e una coverband di Bon Jovi comincia a suonare. Il cantante è uno spettacolo: 1 metro e 60 scarso, coinvolgente come l’orchestra Casadei ma con la cattiveria degli 883. Ha in testa una parrucca (spero per lui) e indossa degli abiti di simil-pelle (o vera plastica che dir si voglia) due taglie in meno. Non proprio un atleta dell’amore, ecco. Però ha una bellissima voce e quando comincia a cantare Keep The Faith il pubblico è in delirio.
Siccome noi vogliamo fare i fighissimi, ci spostiamo proprio davanti al palco, vicino alle casse e dall’idea “ascoltiamo solo questa e poi andiamo”, rimaniamo a fare i fenomeni fin quasi alle 2.00.
Che poi è incredibile quello che riesci a dirti quando non senti assolutamente niente, i bassi ti staccano la pelle e sei schiacciato dalla folla.
Io e Simo, per esempio, ci siamo detti:
Chissà se trasmettono ancora la Ruota della Fortuna. Vuoi da bere? Ti sei sporcato la maglia. Nooo, ma che dici, è stato prima che cadesse il muro di Berlino. C’è un cane che mi ha seguito per tutta la mattina. Una volta la capitale era Torino, adesso è Roma. La barista me ne ha dato uno in più: vuoi da bere? No, non lì, più vicino al collo. Hanno previsto ancora neve. Ho bevuto troppo. Ma vuoi da bere? Me lo ricordo perché era estate. Poi non son sicura, ma mi pare che abbia detto che in quel locale fino a due anni fa ci abitava un re. Ma potrei sbagliarmi. Anche sul resto, però.
Ad ogni modo, bella musica e bella serata. Ma stasera scoprirò davvero il segreto segretissimo del perfetto soufflé. Per il film con Banderas dovrò invece aspettare che mi passi questo fastidioso fischio agli orecchi. Potrei sempre guardarlo con i sottotitoli, è vero, ma la trasformazione in vecchia befana mi sembrerebbe davvero troppo evidente.