Scendo dall’auto e comincio a camminare. Una signora anziana accanto
a me accelera per quanto è possibile il passo; un ragazzo comincia a correre,
sembra spaventato. Un operaio salta su un furgoncino e parte con la porta ancora
aperta. Mi guardo intorno, incuriosita, e vedo solo gente che corre in tutte le
direzioni, impaurita, mentre le voci si fanno via via più forti, e diventano
sempre di più: “E’ scappato è scappato…!!!”
Improvvisamente, capisco: un uomo sta correndo, un infermiere
corpulento in camice bianco lo rincorre, stravolto, e gli intima di fermarsi. Ma
il fuggitivo continua a correre e a fermarsi non ci pensa nemmeno. L’infermiere
continua anche lui, ma è chiaro non ce la fa più: ansima, si appoggia ad un’auto
per riprendere fiato, il terrore negli occhi. Improvvisamente il fuggitivo si
ferma e lo guarda sorridendo, come in un gesto di sfida, come a volergli
ricordare che in qualsiasi momento lui può farcela, che in qualsiasi momento può
rammentare al mondo di essere ancora un uomo. Resta lì, immobile, con quel suo
sorriso strano, fino a quando l’infermiere lo raggiunge e con malagrazia lo
blocca. Si vede che il paramedico è irritato, è evidente che è spaventato. Ma il
matto continua a sorridere. Un attimo dopo giungono altri infermieri, i passanti
smettono di scappare, l’ordine è ristabilito. I giornali locali racconteranno di
questo malato di mente uscito per degli esami clinici che ha approfittato
dell’occasione per scappare, in un ennesimo gesto di follia. Ne parleranno per
giorni, qualche testimone racconterà dello scampato pericolo, di quello che
sarebbe potuto succedere, millanterà forse di essere stato pronto ad
intervenire, raccontando una storia ogni volta più grande. A me rimane un vago
senso di nausea, come ogni volta che mi trovo di fronte a chi con questa vita,
non ci sa far pace.
Nel mio primo appartamento, poco più che 20enne, aprendo lo
sportello di un armadietto poco usato avevo fatto cadere una pila di disegni
lasciati lì dalla proprietaria, che aveva prestato servizio in una clinica
psichiatrica nell’ambito di un qualche progetto sociale. Sparse sul pavimento,
improvvisamente mille vite avevano preso forma davanti a me. Differenti i
colori, diverso lo stile, ma dopo un po’ l’impressione era che fosse sempre la
stessa vita, che fosse solo la sua rappresentazione a cambiare.
I personaggi erano sempre gli stessi. Il padre, la madre, il
bambino. La violenza. Spesso mi sono chiesta se con la pittura il magone che ci
si porta dentro riesca ad uscire, come il colore dal tubetto e se alla fine,
almeno un po’ di quel dolore non rimanga magari sul foglio.
Però chissà, magari la follia non è nemmeno sempre un vero dolore,
ma una visione diversa della vita, dove né la solitudine, nè l’emarginazione, e
nemmeno l’oblio sono prezzi troppo alti da pagare pur di non rinunciare al
proprio essere.
E penso agli altri, a quelli
che a questa vita si adattano alla grande e ne risultano vincitori, perdendo
ogni giorno una parte di sé senza nemmeno accorgersene. E mi chiedo invece se
non sia la normalità il prezzo troppo alto da pagare.
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