lunedì 2 luglio 2012

Ma matto a chi?

Scendo dall’auto e comincio a camminare. Una signora anziana accanto a me accelera per quanto è possibile il passo; un ragazzo comincia a correre, sembra spaventato. Un operaio salta su un furgoncino e parte con la porta ancora aperta. Mi guardo intorno, incuriosita, e vedo solo gente che corre in tutte le direzioni, impaurita, mentre le voci si fanno via via più forti, e diventano sempre di più: “E’ scappato è scappato…!!!”
Improvvisamente, capisco: un uomo sta correndo, un infermiere corpulento in camice bianco lo rincorre, stravolto, e gli intima di fermarsi. Ma il fuggitivo continua a correre e a fermarsi non ci pensa nemmeno. L’infermiere continua anche lui, ma è chiaro non ce la fa più: ansima, si appoggia ad un’auto per riprendere fiato, il terrore negli occhi. Improvvisamente il fuggitivo si ferma e lo guarda sorridendo, come in un gesto di sfida, come a volergli ricordare che in qualsiasi momento lui può farcela, che in qualsiasi momento può rammentare al mondo di essere ancora un uomo. Resta lì, immobile, con quel suo sorriso strano, fino a quando l’infermiere lo raggiunge e con malagrazia lo blocca. Si vede che il paramedico è irritato, è evidente che è spaventato. Ma il matto continua a sorridere. Un attimo dopo giungono altri infermieri, i passanti smettono di scappare, l’ordine è ristabilito. I giornali locali racconteranno di questo malato di mente uscito per degli esami clinici che ha approfittato dell’occasione per scappare, in un ennesimo gesto di follia. Ne parleranno per giorni, qualche testimone racconterà dello scampato pericolo, di quello che sarebbe potuto succedere, millanterà forse di essere stato pronto ad intervenire, raccontando una storia ogni volta più grande. A me rimane un vago senso di nausea, come ogni volta che mi trovo di fronte a chi con questa vita, non ci sa far pace.
Nel mio primo appartamento, poco più che 20enne, aprendo lo sportello di un armadietto poco usato avevo fatto cadere una pila di disegni lasciati lì dalla proprietaria, che aveva prestato servizio in una clinica psichiatrica nell’ambito di un qualche progetto sociale. Sparse sul pavimento, improvvisamente mille vite avevano preso forma davanti a me. Differenti i colori, diverso lo stile, ma dopo un po’ l’impressione era che fosse sempre la stessa vita, che fosse solo la sua rappresentazione a cambiare.
I personaggi erano sempre gli stessi. Il padre, la madre, il bambino. La violenza. Spesso mi sono chiesta se con la pittura il magone che ci si porta dentro riesca ad uscire, come il colore dal tubetto e se alla fine, almeno un po’ di quel dolore non rimanga magari sul foglio.
Però chissà, magari la follia non è nemmeno sempre un vero dolore, ma una visione diversa della vita, dove né la solitudine, nè l’emarginazione, e nemmeno l’oblio sono prezzi troppo alti da pagare pur di non rinunciare al proprio essere.
E penso agli altri, a quelli che a questa vita si adattano alla grande e ne risultano vincitori, perdendo ogni giorno una parte di sé senza nemmeno accorgersene. E mi chiedo invece se non sia la normalità il prezzo troppo alto da pagare.

Nessun commento:

Posta un commento