Andrès è un
dottorino quarantenne, alto, magro e un po’ ricurvo come una pianta di fagiolo.
Non lo so se si possa definire bello, ma ha una sorta di ritrosia un po’ tenera
e un po’ timida che mette in circolo l’ormone femminile. Piace quando sorride,
piace quando non sorride. Sa di Spagna, sa di mare, sa di cose buone. E’ in
Italia già da un po’, ma lavora qui da poco. Anche lui, come me, è “quello
nuovo”.
La mattina
viene su a salutare, due baci a ogni ragazza “Da
noi si usa cossì, non farlo sarebbe scortesse.”, spiega. E noi giù di sospiri di
ammirazione per la cortesia spagnola, per quelle R e per quelle S. E anche per
tutto il resto, naturalmente.
“Andrès, ti
vedo strano”, dicono a volte le ragazze.
“Es la resaca”,
sorride lui. E Collega 2, che di tutte è la più sentimentalona, se lo immagina
vittima della nostalgia di casa, della mamma e del profumo del mare, finchè un
giorno l’Oreste, che di Spagna ne sa, scoppiando a ridere con l’occhio furbetto
non spiega, “Ma quale madre e padre… questo qua la notte gli dà giù di calimocho
e vin tinto… ecco perché la mattina ha la resaca.” In effetti, che il suo essere
regolarmente stralunato fosse da imputare ai sintomi di qualche bevuta si poteva
anche intuire.
Ma sarà la
nostalgia della paella, il ragazzo è da capire. E i sospiri femminili
continuano, anche se accompagnati da qualche occasionale preoccupazione per il
suo fegato.
Una mattina la
sua aria malinconica sembra qualcosa di più di una tecnica da marpione. Ci
racconta della fatica di ambientarsi, ammette le difficoltà con la lingua.
Collega 2 se ne esce subito con un “Gli italiani sanno come accogliere gli
stranieri, perché hanno provato cosa vuol dire avere il cuore altrove”, e si
offre di fargli un breve ma intensivo corso per un mese, di appena 800 ore.
“Più che un
corso, una convivenza.”, osservo, ma il calcio che mi arriva prontamente sugli
stinchi mi convince all’istante che l’Italia sia davvero il paese ospitale per
antonomasia. E di certo non chiedo come mai non più di un’ora prima proprio lei
abbia messo in fuga un marocchino che vendeva scope, gridando, “Se non te ne vai
subito mando giù il cane”.
“No entiendo i
modi de dire… no entiendo le battute… - spiega lo sconsolato Andrès – quando
chiedo explicaciones i colleghi mi dicono sempre ‘basta con ‘ste domande, va in
mona ti e la Spagna!’ E allora io chiedo: ma dime, donde està esta mona? E
invece di rispondere che fanno? Si mettono tutti a rridere… io no entiendo,
realmente no entiendo.”
Anche noi ci
metteremmo a ridere, se non fosse che il povero Andrès sembra davvero
atapirato.
Da
un’approfondita indagine che prevede la somministrazione di biscottini fatti con
le amorevoli manine della Collega 2 (perché si sa, il ragazzo è fuori casa e
chissà come mangia, poveretto), viene fuori come i colleghi più anziani abbiano
l’abitudine di fare qualche battuta in veneto stretto che lui, ovviamente, non
può capire. E che rispondano troppo spesso alle sue richieste di chiarimenti con
uno sbrigativo e spazientito “Ma va in mona Andrès!”, dove per mona si intende
l’organo genitale femminile. Modo di dire ovviamente volgarissimo, in disuso
nelle nuove generazioni, ma ancora ampiamente usato in alcune fasce d’età. E
così capita che il povero Andrès venga mandato in quel posto più volte al
giorno, un po’ da tutti, tanto che alla fine la fregola di conoscere dove sia
quel posto, gli viene. Ma siccome i colleghi sono sì veneti, ma soprattutto son
bastardi, si guardano bene dal chiarire il fraintendimento, tanto più che il
vedere Andrès che domanda in giro dove stia quel posto suscita l’ilarità
generale.
Comprensibile
quindi l’amarezza di questo poveretto nel sentirsi sempre preso in giro.
Senza spiegare
il significato letterale del termine tentiamo di spiegargli che si tratta di
un’espressione scherzosa, usata tra amici, che non vuole assolutamente essere
offensiva e che anzi, è indice di grande confidenza. Alla fine sembra aver
capito, se ne va sollevato e quasi contento. E noi siamo pervase dallo spirito
di aver compiuto una buona azione.
Certo, Andrès
adesso saluta tutti con un caloroso e sorridente “Ciao tìo… e va in mona!”, ma
dottori e pazienti sembrano più sorpresi che offesi. E anche il postino non
sembra aversene a male, così come il tecnico della manutenzione mensile, i 5
fisiatri e gli 8 fisioterapisti. Al massimo qualche vecchietto ricambia con un
“Anca ti caro.”
Ma può capitare
che esageri, come oggi, quando dalla porta dell’ambulatorio mi ha regalato un
bel “Ciao Michi… e me rrraccomando… in mona siempre!” alzando pure i
pollici.
A questo punto
potrei maledire i piccoli paesi, i veneti e i loro modi di dire (potevo mica
nascere a Parigi?), ma so che è soltanto una fase, gli passerà. E comunque la
faccia sbigottita e scandalizzata delle signore presenti mi ha già ripagato
ampiamente di ogni cosa.
Quindi… ma va
in mona Andrès!
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