mercoledì 30 maggio 2012

29 maggio 2012

Arrivo tardi, come al solito non ho dormito. Arraffo un caffè alla macchinetta bevendolo mentre salgo le scale. Perché il caffè delle macchinette sa sempre di esperimento chimico..?!, penso. Non appena metto piede in ufficio Collega 2 mi regala uno dei suoi immancabili sorrisi da inno alla gioia: non sono ancora le 8 e mezza e già la odio. E’ così ogni giorno; prima delle 10.00 non riesco a volerle bene: la sua energia mattutina mi sfinisce.

“Buenos dìas!” – eccola là. Da quando Andrès, il dottorino spagnolo, ha rifiutato le sue lezioni di italo-veneto, ha cominciato lei ad imparare la lingua ispanica e da allora ci saccagna tutti i momenti con queste sue frasi da manualetto turistico.

“Dònde està la Plaza Major?” “Podrìa repetirlo, por favor?” e ripete la “erre” all’infinito come se fosse affetta da un fastidioso prurito al palato.
Pensare che le basterebbe aprire un bottone in più della camicia e Andrès si scioglierebbe in un momento. Bah.

Guardo l’orologio: le 9.00 appena e penso che se non bevo subito un altro caffè non arriverò mai viva alle 9 e mezza. Mentre cerco una possibile scusa per scendere di nuovo, un grido mi sveglia seduta stante. Alzo gli occhi e vedo Collega 1 con l’occhio a palla e il ciuffo insolitamente scompigliato: mi spaventa più quello che le parole che sento ripetere da più parti: Il terremoto! Il terremoto! Tutto intorno a noi trema, la corrente va via, i faldoni negli scaffali più in alto cadono rovinosamente a terra con un tonfo sordo. 

Ci precipitiamo sulle scale, ci uniamo ad un fiume di altre persone che corre giù, in preda al panico più totale. C’é chi é vestito, chi é fuggito dagli ambulatori così com’era, con le scarpe in mano o in sottoveste. E c’é chi non può camminare e dalla sedia a rotelle ci guarda rassegnato, come chi quella paura e quell’impotenza, le vive tutti i giorni.

Alla fine ci ammassiamo in strada, fra allarmi che suonano, cani che abbaiano e sirene spiegate di ambulanze e pompieri. Ci si fa coraggio, ci si cerca tra la folla e il pensiero va subito alle persone più care, ai bambini e a chi, immobile in un letto, non può far altro che sperare. Si fanno girare quei pochi telefonini che ci sono, tutti gli altri son rimasti di sopra, nella fretta di fuggire, ma le linee non funzionano e l’impossibilità di rassicurare e di essere rassicurati sarà anche peggiore del terremoto stesso. La stessa scena si ripeterà alle 10 e mezzo e poi ancora all’una. Nel mezzo, tanta paura, il crollo di qualche cornicione, molte crepe e la caduta di alcuni casolari diroccati. E mentre noi scendevamo le scale di corsa, raccoglievamo più volte gli stessi oggetti e raddrizzavamo quadri, 17 persone perdevano la vita.

E anch'io che non credo alla fortuna, oggi mi sento fortunata.

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