sabato 23 marzo 2013

Quando hai paura



Son giorni bui, son giorni di attesa. Attesa di un qualcosa che si sa che accadrà, qualcosa di inevitabile e già scritto. Ma non da me.

Come mi giro sento parlare di licenziamenti, tagli, ristrutturazioni aziendali. Parole diverse, che però conducono tutte ad un unico futuro possibile: a breve perderò il lavoro. Di nuovo.

Mesi passati ad imparare un lavoro che non era il mio, tempo impiegato a farmi accettare da chi pensava non ce l’avrei mai fatta. Colleghe, colleghi, capi, capetti e lacchè: mille caratteri diversi, approcci diversi, situazioni diverse. Ogni giorno uno sforzo per venire incontro a tutti, nella convinzione che il lavoro non sia fatto solo di quello che fai quando sei alla scrivania, ma anche di rapporti  personali, contatti e disponibilità. 

Ma non era vero niente: alla fine sei solo un numero, una cifra, quella che compare nella tua busta paga. Se è troppo alta, sei solo un peso.

Quando si è sparsa la voce dei licenziamenti ci siamo sentiti vicini, solidali uno con l’altro. Dopo un paio di giorni sono cominciate le crisi di pianto, le accuse e le recriminazioni reciproche.

 Oggi, a due settimane dalla notizia, ci si guarda in cagnesco, cercando di carpire informazioni, di conoscere i nomi dei condannati per poter tirare un respiro un sollievo. Per poter dire che ti dispiace ma che in fondo meglio a lui che a te. E che alla fine un po’ se lo meritava, con tutte quelle lagne per ogni cosa.

Perché è questo che fa la paura: mette uno contro l’altro, tira fuori il peggio delle persone in una guerra fra poveri che non potrà mai vedere nessun vincitore. Solo vinti.

 “Certo che tu non perdi mai il sorriso – ha osservato con una puntina di cattiveria una collega dell’accettazione – eccerto, voi del piano nobile avete contatti importanti… non vi tocca nessuno. Sono i poveretti come noi ad andarci di mezzo. Al tuo posto me la riderei anch’io… oh come riderei.”

Avrei potuto risponderle che non ho proprio nessun motivo per ridere. Che la vita mi sta regalando sberle tutti i giorni, e non solo sul lavoro. Che sono ad un quarto d’ora dall’esaurimento nervoso. E che forse quel sorriso è l’unica cosa che mi resta.

Avrei potuto dirle mille cose, non ultima che dovrebbe badare meno a me e curarsi di più di suo marito, troppo spesso in giro per i bar, ma è un gioco cui non voglio partecipare, perché il mio destino è già scritto, so che il mio nome è su quella lista: ma se non posso evitare di essere licenziata, so che nessuno mi potrà mai obbligare ad essere anche meschina. 

E restare la stronza di sempre mi sembra una scelta infinitamente migliore.

domenica 17 marzo 2013

PAPA FRANCESCO



Sarà quel sorriso da monello che sembra averne appena combinata una, sarà quell’accento che fa un po’ Miguel Bosè… non lo so, ma a me piace. Francesco dico, il Papa. E non sono una che frequenta l’ambiente, va detto. Nemmeno a Natale e Pasqua per dire. Che di far l’ipocrita non mi va. 

E pensare che son cresciuta dalle suore, che ho frequentato la parrocchia, che son stata una Coccinella per anni e che il clero a me personalmente non m’ha mai fatto nulla: ma la fede è un dono. Utile tra l’altro, perché ti permette di accettare le mazzate della vita con uno spirito diverso, ma pur sempre un dono. Come gli occhi azzurri, il culo bello e la faccia angelica. E indovinate un po’? Io sono nata scura, come il peccato. E senza fede.

Ma sono alla ricerca, oh sì sì, o per meglio dire, sono più che altro in attesa. Perché vorrei averla la fede, perché sono fin troppo critica e cinica, perché sento che alla mia umanità manca qualcosa. Perché vorrei avere la capacità di credere e non stare sempre a soppesare quello che mi viene detto. Vorrei saper ascoltare parole di speranza e giustizia senza sentire il bisogno di controllare su Internet quante possibilità esistono che siano vere. 

E quindi cerco di farmi trovare pronta, nel caso dovesse succedere che il dono arrivi anche a me.  Come per la lotteria: non compro nessun biglietto, perché se deve essere culo, il biglietto vincente lo troverò per strada, mentre zampetto di qua e di là sui tacchi per dire. E sento che anche per la fede sarà così: una bella mattina, magari mentre sto decidendo se preparare i broccoli al vapore o massacrarmi di patapizza col ketchup, sarò folgorata. E tutto mi sembrerà diverso. E mentre nel primo caso cammino guardando a terra per vedere se trovo il biglietto, nel secondo caso sto attenta a cogliere i segnali.
Come l’elezione di Papa Francesco per esempio, che potrebbe essere capace di farmi fare pace con il clero. Di farmi dimenticare quella sensazione di malessere che mi assale leggendo di magheggi, carrierismo e anacronismi di tutti i tipi. Che non è di questo che abbiamo bisogno.

Che mi aspetto da lui? Che faccia il suo mestiere. Che parli di famiglia – magari di qualunque tipo di famiglia, ma qui siamo nella favola, lo so -, di speranza e di giustizia sociale. E quella sua frase, “Vorrei una Chiesa povera e per i poveri” mi fa ben sperare. Anche se un futuro prossimo con Lacoonte  e l’Amazzone Ferita all’asta su e-bay mi sembra poco probabile. 

Ma son tempi duri, bisogna accontentarsi. E già non aver sentito la parola “banca” mi strappa un sussulto di sorpresa.

E poi chissà. Se Francesco (quello santo) parlava agli uccelli, hai visto mai che questo Francesco non parli alle capre. Come me. Da parte mia un nuovo linguaggio lo imparerei volentieri.
Ciao guys.