sabato 31 marzo 2012

Se solo ne avessi il tempo…

“Quando lavoravi dicevi sempre di non avere mai tempo; adesso che sei a casa la tua risposta è la stessa.” L’accusa è chiara, pesante e se mi viene rivolta da una persona che stimo, vale la pena rifletterci un momento.
In effetti la scusa più abusata, più banale, quella che ti viene in mente senza nemmeno bisogno di pensarci e che si adatta a tutte le occasioni, è proprio questa: non ho tempo. Anche ho mal di testa, ma quella si presta già ad altre considerazioni.
Non vuoi fermarti a parlare con il compagno di università che ti saccagna il buonumore con i litigi con la morosa? Scusa ma son di corsa, non ho tempo. Non vuoi fare il lavoro che la collega tenta di rifilarti? Mi dispiaaaace, ma sono presisssssima, non ne ho proprio il tempo. E così via. Alzi la mano chi, almeno una volta al giorno, non ricorre a questa bugia. Magari anche in buonafede.
In realtà di tempo ne abbiamo. Tutti, senza eccezione, solo che lo riserviamo alle cose che vogliamo fare. Che probabilmente non sono nemmeno le più importanti, ma semplicemente quelle che ci gratificano di più o che ci stressano di meno.
Pensiamo solo alle ore che trascorriamo sui blog, su FaceBook, o a navigare su Internet. Per non parlare di quante volte al giorno controlliamo la casella di posta. Perfino io, fino a poco tempo fa assolutamente refrattaria alla tecnologia e profondamente allergica ai social network, mi ritrovo a lasciare il pc acceso sempre: magari nel frattempo faccio altro, ma quando sono a casa non manco mai di controllare i messaggi ogni 20 minuti. A fine giornata è un sacco di tempo. A fine mese è una quantità incredibile. A fine anno è una montagna.
Ma quando la mia amica mi ha fatto notare la cosa, sono caduta dalle nuvole. La mia prima reazione è stata ma-come-ti-viene-in-mente-proprio-io-che-non-ho-nemmeno-il-tempo-di-dire-amen-e-tu-lo-sai. Poi però, passata la sorpresa, mi son fatta un serio esame di coscienza e ripensando a quello che avevo fatto nell’arco della giornata che non fosse strettamente legato al dovere, ho scoperto sgomenta che:
  1. Ho perso più di ¾ d’ora in un negozio per trovare un completino carino con il reggiseno perfetto che contenga e sostenga ma senza strizzare, che mi dia un’aria maliziosa ma raffinata, semplice ma elegante, che non sia nero ma nemmeno bianco e non colorato per carità che farà sì primavera, ma anche un po’ shampista alla fiera del 3x2… che sia possibilmente blu scuro, che è un po’ la mia passione, ma un blu diverso dagli altri 23 che ho nel cassetto, che ricordi un po’ una notte di tempesta, ma non di quelle proprio buie, di quelle in cui si vede il cielo a sprazzi e magari anche l’Orsa Maggiore… capito come? Ecco voi sì, la commessa no. E per colpa di una che non guarda il cielo nelle notti di burrasca ci ho perso quasi un’ora.
  2. Ho fatto il normale controllo settimanale per assicurarmi di non avere la cellulite. Lo spiego per chi non lo sapesse: ti devi strizzare una gamba e/o i glutei con le due mani, ma proprio forte forte, mi raccomando, sennò l’esame non è scientifico. Mai fatto? Io lo faccio sempre. (A proposito, qualcuna mi sa dire come eliminare il blu dei lividi?) Se non compare la buccia d’arancia sei salva per un’altra settimana, se invece vedi qualcosa vuol dire che è ora che cominci a dire che quest’anno il bikini t’ha un po’ stufato e che ti dedichi alla ricerca di un bel catalogo online di parei… oppure di burka, a seconda del caso. Oppure ancora te ne freghi, che è anche meglio.
  3. Ho impiegato una quantità imprecisata di tempo nel tentativo di scegliere il vestitino giusto. Perché son sicura che la prima volta che vado al super con la tuta e le sneakers ti incontro Antonio Banderas che mi chiede quale sia la corsia del latte e poi lo sanno tutti come sono questi spagnoli… capace di pensare, ma guarda te queste venete che zulù. E non sta bene, dài, anche per una questione di orgoglio nazionale.
  4. Il tempo che ho perso a dire al mio vicino che non mi deve murare in casa parcheggiandomi il SUV davanti alla porta non lo conto nemmeno perché sono una signora.
Quindi, calcolatrice alla mano, se badassi meno a quello che indosso potrei risparmiare un quarto d’ora al giorno. Rinunciando alla mia personale guerra preventiva contro rughe e occhiaie potrei riappropriarmi di altri 5 minuti, mentre un altro quarto d’ora buono lo potrei recuperare dalla cura dei capelli. Riducendo a 3 le volte che mi lavo i denti, invece delle solite 5 o 6 e prendendo le chiavi della macchina la PRIMA volta che scendo 3 piani di scale, evitando quindi di tornare su ancora e ancora, arriviamo a un’ora tonda tonda. Mica cotiche. Voglio dire, c’è gente che, volendo, ti inventa un vaccino contro tutti i problemi del mondo in meno tempo.
Certo però che... No dico, io il vaccino non lo so inventare. Non solo quello che ti risolve tutti i problemi del mondo, ma nemmeno quello contro le cuticole infiammate. Senza contare che quando cerchi lavoro la presenza conta, eccome se conta e quindi il tempo che dedichi alla cura di te stessa è una sorta di investimento. E quindi… quindi adesso mi ritrovo con i capelli in disordine e un’ora che mi avanza.
Morale: la prossima volta che non vorrò fare qualcosa dirò che mi fanno male le gengive. O che mi fanno prurito le cuticole. E voglio proprio vedere se qualcuno ha il coraggio di dire che uso sempre la stessa scusa.

martedì 27 marzo 2012

Va bene tutto, però....


Caro Ingegnere, mi dispiace che tua madre, la signora Ileana, sia mancata. Dico davvero: era simpatica, dolce e sono sicura che come mi hai ripetuto ogni giorno, abbia voluto bene a te, suo unico figlio, come nessuna madre in nessun mondo esistente avrebbe potuto fare. Capisco che perdere la mamma a 50 anni sia un dramma incommensurabile perché avresti ancora bisogno dei suoi consigli e della sua costante guida, né ho difficoltà a comprendere che tu ti senta smarrito, inconsolabile e abbandonato a te stesso in questa valle di lacrime. Per non parlare dei passatelli in brodo che non potrai mai più mangiare perché come te li faceva lei nessun altro al mondo potrà mai farli uguali.
Ammetto anche di averti forse concesso troppa confidenza: non avrei dovuto tenerti la mano mentre eri sconfortato e piangente, non avrei dovuto sussurrarti frasi di incoraggiamento e men che meno stare ad ascoltarti annuendo comprensivamente con la testa mentre mi raccontavi di quanto quell’arpia di tua moglie non capisca la tua legittimissima e condivisibilissima passione per i videogiochi; e forse avrei dovuto mostrarmi meno entusiasta nei confronti del tuo impegno nel difendere la galassia e nel conquistare gli imperi e più solidale con tua moglie che continuava invece ad interromperti per ricordarti di portar fuori l’umido appena arrivato a casa.
Ho sbagliato, lo so, ma mi sei parso triste e vulnerabile. E solo, immensamente solo.
E devo dire che niente in te mi ha mai ricordato che fossi un uomo e non semplicemente una persona, e di sicuro se dovessi pensare a te che fai sesso mi verrebbero subito in mente gli alieni e pianeti lontani. O al massimo ti vedrei armeggiare tra api e fiori, ecco. Mi ha rassicurato il tuo essere costantemente sopra le righe, il tuo essere ingegnere anche nella vita. Avevo appurato che non fossi un ingegnere aereonautico, perché si sa, quelli sono di tutt’altra pasta e son convinti che una conformazione, per essere veramente aerodinamica, non possa avere una taglia inferiore alla terza di reggiseno. Ma mi hai detto di essere un ingegnere civile, che costruivi strade e ponti. E io mi sono sentita rassicurata.
Per questo, quando ieri mattina sono venuta al funerale di tua mamma e ti ho abbracciato battendoti una mano sulla spalla non ho capito come ti sia venuto in mente di ricambiare battendomi la mano sul culo. Cosa pensavi, di accarezzarmi la testa?
E ti è andata ancora bene che mi hai colto di sorpresa, perché in qualsiasi altro momento quello che era il funerale-della-tua-amata-mamma sarebbe stato ricordato come quella-volta-che-ho-preso-una-saccagnata-che-ancora-mi-fanno-male-i-denti. E invece ti ha detto bene, perché quando ho visto tua moglie che ci guardava ho preferito allontanarmi velocemente prima che il “Che carina che sei stata a venire, grazie per essere stata vicina a mio marito in queste settimane” si trasformasse in un “Ti cavo gli occhi, stronza!”.
E quindi, caro Ingegnere… mavaffanchiulo te, i tuoi mostri e anche Star Trek. Sono sicura che lo scriverebbe anche la signora Ileana, se avesse un blog.

giovedì 22 marzo 2012

La tregua


Oggi non ho voglia di scrivere.
Passata la buriana delle stanze d’ospedale mi sento spossata e vuota. Avrei voglia di mettermi sul divano e di chiacchierare, semplicemente, come si fa tra amici. Quando dici le cose come ti vengono in mente, senza un filo logico e senza preoccuparti troppo. Quando le libere associazioni sono veramente libere e dal dire guarda mi si è smagliata la calza ti ritrovi a spettegolare su tuo cugino che sta facendo soldi a pacchi con un’agenzia tuttofare che per 2 euro ti libera la cantina e se serve ti porta via anche un morto. Per passare poi a chiedersi per quanto tempo sia possibile pattinare sul ghiaccio con i mocassini prima di rompersi almeno un femore. Cose così. Poco senso, zero impegno, tanta libertà.
Vorrei un giorno di tregua, vorrei un giorno normale. Vorrei un giorno in cui poter avere la testa vuota e persone intorno con cui condividerlo. E anche un caffè.
Che c’entra il caffè? Non lo so, mi sono persa. E di ritrovarmi non ci penso nemmeno.

domenica 11 marzo 2012

Quando le ore non passano mai


Nelle interminabili ore trascorse in una stanza di ospedale, diventa inevitabile chiacchierare con chi ti sta accanto, malati e non. Un po’ per la noia, un po’ perché si crea un senso di solidarietà, un po’ per dare un senso a quelle ore vuote, ma alla fine diventa naturale il raccontare e il raccontarsi.
Oggi il figlio della signora accanto a mia mamma mi ha confidato di sentirsi vecchio.
“Quand’ero ragazzino sciorinavo i nomi, le date di nascita e i ruoli dei calciatori del Grande Torino. In ordine alfabetico, dalla A alla Z e viceversa. Mica da tutti. Da adolescente avrei potuto citarti i nomi di tutte le playmate di Playboy, compresi i mesi in cui erano apparse. Adesso al massimo ti posso fare un elenco dei nick che ho conosciuto negli ultimi mesi.”
Gli chiedo se riesce a fare anche questo in ordine alfabetico, ma la mia domanda cade nel vuoto.
E’ sconsolato, oggi va così. Lo guardo: 50 anni, un po’ di pancia e un accenno di calvizie.
“Ha la fronte alta - dice mia mamma - vuol dire che è intelligente.” Se è così, mi sa che tra qualche anno diventerà un genio.
Gli parlo di felicità e di disillusione, ma è un ingegnere, ci vuol pazienza, abbiamo difficoltà nell’incontrarci in un linguaggio comune. Se io vedo un bicchier d’acqua penso che sia bella fresca, lui ti tira fuori l’assorbimento atmosferico. Se gli chiedo come sta sua madre mi risponde “condizioni standard” e sono sicura che fa almeno 3 disegnini (con 5 revisioni) prima di trovare la giusta posizione per il vassoio dei pasti. Mi domando se la sua vita sia organizzata in base alla programmazione delle repliche di Star Trek.
Quando gli dico che una delle mie paure è di arrivare ad avere così tante rughe da dovermele spianare con il ferro da stiro, lui scoppia a ridere. Un altro mi prenderebbe in giro o mi confesserebbe le sue di paure, ma lui no: se ne esce con una spiegazione scientifica del perché le pieghe della pelle non possano essere cancellate come una qualsiasi altra grinza. Più che un uomo, mi sembra una copia della rivista Focus Edizione Spiaggia:  Botte e risposte ai mille perché della vita.
Oggi è rimasto più di un’ora ad osservare sua madre mentre dormiva. Lo sguardo triste, silenzioso. Gli ho portato un caffè, mi aspettavo venti minuti di menate sulla caffeina e sugli alcaloidi in genere e invece si è alzato e mi ha abbracciato. E’ rimasto fermo così, senza parlare. Ancora una volta ha vinto lui: è riuscito a sorprendermi.
Ma direi che abbiamo finalmente trovato un linguaggio comune.

mercoledì 7 marzo 2012

Si fa presto a dire mi vendico


Che il pronto soccorso non funzionasse esattamente come su E.R. già l’avevo capito, ma tanto per non farmi trovare impreparata ho indossato lo stesso il maglioncino di quel grigio scuro che mi fa gli occhi di velluto e il fisico da fata. Sia mai che all’improvviso mi arriva il dottor Ross con lo stetoscopio a forma di cuore e mi promette un leccalecca se mi lascio visitare. O anche solo mi chieda di farmi visitare. O anche solo mi dica ciao. Però lo stetoscopio lo deve avere, quello sì. Ecchecaspita.
Inutile dire che il dott. Ross non s’è nemmeno fatto vedere, si vede che aveva da fare, e poi è farfallone, si sa, ed ho trascorso quindi 6 simpatiche ore in compagnia di un baldo infermiere mollato di fresco che ha continuato a parlare non tanto della sua ex quanto del nuovo fidanzato di lei, colpevole, ai suoi occhi, di avergli rubato l’innocente fanciulla altrimenti innamoratissima. E poi dicono che sono le donne a raccontarsi balle. Spalleggiato da un collega, ha elaborato per tutto il tempo sottili strategie di vendetta, che consistevano nel: vado sotto casa sua e gliene dico quattro, lo aspetto fuori dal lavoro e gliene dico quattro, lo aspetto fuori dalla palestra e gliene dico quattro. Se prova a reagire lo butto giù dalle scale. Praticamente un piano elaboratissimo che non mancherà di portare i suoi frutti: un cazzotto se va bene, una denuncia se va male. In ogni caso il tentativo di riconquistare la fanciulla farà gnao. Senza contare che nel frattempo, al solo pensiero di menar le mani, il livello di collera dell’infermiere ha raggiunto livelli preoccupanti.
E allora ho capito una cosa: la vendetta è femmina. Gli uomini sono dilettanti, fanfaroni, troppo irruenti per ideare una rivincita come si deve, perché una vera vendetta esige il pieno rispetto di alcune regole ed ideazione ed elaborazione sono le basi da cui partire. Rigorosamente in compagnia.
Innanzi tutto, per colpire dove fa più male occorre individuare quello che è più caro all’infame, cosa che di solito coincide con la sua macchina o con qualcosa di tecnologico; di sicuro qualcosa di materiale.
Bisogna poi determinare con precisione il suo punto debole, meglio se più di uno, puntando, se possibile, allo sputtanamento e alla ridicolizzazione finale del soggetto stesso davanti ad amici e colleghi.
Soprattutto, la vendetta non deve essere istintiva. Deve essere concepita con cura, non lasciata all’ispirazione del momento. Deve occupare intere domeniche e lunghe serate, perché solo così raggiungerà lo scopo. Che non è tanto quello di punire il soggetto, non solo almeno, ma è soprattutto quello di far passare il brutto momento a chi ha subito un torto, possibilmente evitandogli di mettere la testa nel forno o di cercare conforto in un suicidio glicemico con la sacher torte.
E ovviamente il piano sarà pronto ed attuabile esclusivamente quando la cosiddetta vittima si renderà conto da sola di non aver più bisogno di farla pagare a nessuno, perché non ne vale la pena, perché nel frattempo avrà trovato altri stimoli o semplicemente perché il momento peggiore sarà passato.
E capirà che il valore di un buon piano strategico è tutto lì: nell’occupare le ore senza farsi del male in attesa che passi la burrasca, qualcosa cui attaccarsi per non farsi trascinare dalle onde.
E adesso venitemi a dire che la miglior vendetta è il perdono.
Nel frattempo io rifletto un momento sul come farla pagare all’infermiere che durante il trasporto in ambulanza è riuscito a perdere i documenti di mia madre facendomi stare altre 4 ore in ospedale. Qualcuno sa di che tipo sia la sua macchina..? E dove la parcheggia di solito..?

lunedì 5 marzo 2012

Quando si dice é primavera


La primavera è ufficialmente arrivata. Si è manifestata con un deciso e caldo raggio di sole: si chiama Didier, è francese ed è come dire …molto rive gauche. Un metro e 85 circa, occhio lungo come la Senna, spalle larghe come l’atrio del Louvre, praticamente una tour Eiffel di fascino.
Da quando è venuto ad abitare vicino ai miei, la mia remise en beauté occupa una fetta maggiore del mio tempo e la frase “vado a trovare mia mamma” ha assunto un nuovo significato.
A volte capita che lo incontri per le scale o sul pianerottolo, una volta l’ho aiutato a cercare il gatto. Voglio dire, non siamo amici ma nemmeno estranei: in passato c’era gente che si sposava dopo essersi frequentata molto meno. Quando mi vede dice oh-là-là e recita qualche verso di Prevert. Riempie le frasi di parole come douceur, trésor, adorable e mi canta Michelle Ma Belle. Quando fa così assalterei con lui la Bastiglia o in alternativa la pasticceria sotto casa.
L’altro giorno mi dice: “La poesia francese è l’essenza stessa del romanticismo… non è possibile che tu non ne conosca nemmeno una.”
Rispondo di no. Insiste. Per delicatezza (o vigliaccheria?) evito di dirgli che in genere la poesia ha per me la stessa attrattiva della lettura dei numeri del bingo. Per uno che non gioca.
“Almeno una canzone in francese, quella la conoscerai pure.”
Rispondo ancora di no. Nuovamente insiste. “Ma conoscerai qualcosa in francese… qualsiasi cosa.”
Ci penso su. Rifletto. Scavo nei meandri della mente, ovvero sia spintono il criceto che ho nel cervello nel vano tentativo di svegliarlo. Dopo qualche secondo, arriva l’illuminazione e attacco:
Frère Jacques, frère Jacques dormez Vous? Dormez Vous? Sonnez les matines, sonnez les matines Ding Ding Dong, Ding Ding Dong.”
E accompagno i rintocchi delle campane con il movimento degli indici. Che voglio dire, sarà anche la canzoncina di Fra’ Martino Campanaro, ma è in francese, mica cotiche.
Da allora quando mi vede mi fa ciao con la mano e se ne va.
… Come si dirà “ammazza però che palla che sei” in francese? La prossima volta gli racconto la barzelletta della Pulzella d’Orléans che va in visita alla Legione Straniera, così impara.