mercoledì 27 febbraio 2013

Non guardare indietro, ci sei già stato. Charlie Brown



L’ho incontrato un po’ di anni fa, l’ho rivisto stamattina. Non ero dove avrei dovuto essere, mi sono ritrovata dove avrei potuto forse essere se le cose fossero andate diversamente. Cioè con lui. 

Stessa faccia un po’ così, quel sorriso di chi lo sa che non gliene puoi raccontar di giuggiole. Quella testa rasata (quasi calva?) che tante volte ho accarezzato, chiedendo: 

“Senti ma, com’eri da normale?” 

E lui ciumbia se si arrabbiava, perché se io sono principessa lui è il re dei permalosi. Ma era solo un pretesto per poi far pace.

E’ finita perché eravamo diventati altro rispetto a quando ci eravamo conosciuti, perché era solo il ricordo di noi e di quello che era stato a tenerci insieme. E chi ha avuto tanto non si può accontentare di poco, sicuramente non dalla stessa persona.

Inevitabile che finisse, e che finisse male, perché le storie veramente importanti solo così si possono concludere. Ci siamo massacrati anche per il nulla, spinti dalla frustrazione di non saper più far funzionare un sogno. Perché per mettere una fine, hai bisogno di frapporre delle cose brutte tra te e quell’assurdo desiderio di far rivivere un passato che altrimenti ti incatenerà per la vita. Perché solo così potrai tornare a vivere.

Rimpianti non ne ho, ma uscirne è stata dura. Tornassi indietro, lo lascerei di nuovo.

Ma per un attimo, un solo attimo, mi son ritrovata a chiedermi chi gliel’accarezzava adesso quella testa. E la tentazione di farlo io è stata grande.

 

sabato 23 febbraio 2013

In ufficio passa un corriere



In ufficio passa un corriere, di quelli che consegnano pacchi e pacchetti. Ogni 2-3 giorni, a volte anche più spesso.

Non è brutto, ma è piccolo, sgraziato e parecchio trasandato. Credo si lavi a cadenza semestrale, come le auto. Chi entra dopo di lui ci chiede spesso se non nascondiamo un cadavere da qualche parte.

Ogni volta butta lì i pacchi con malagrazia, manca solo che li prenda a calci. 

Ogni volta lo saluto e gli chiedo come sta, lui mi grugnisce che ha fretta. Firmo veloce la bollettina di consegna, lui bestemmia sottovoce perchè “scrivo che non si capisce un’ostia”

Il caffè invece lo accetta sempre, ma non ringrazia mai. Lo butta giù di corsa, come una medicina; mi guarda appena, poi scappa via.

“Buon fine settimana, riposati”, gli ho detto oggi.  

“Anche a te” – ha bofonchiato lui.  

O “Vaffanculo”, non lo so, con lui sono possibili entrambe le risposte.

“Tu sei scema – dice sempre Collega 1 – una volta o l’altra mi stufo e mando una lettera di reclamo alla sua sede.”

Sarebbe facile, in effetti; anzi, probabilmente sarebbe anche giusto; perchè di gente meglio di lui è pieno il mondo.

Il fatto è che io quel corriere lì lo so chi è. 

Suo padre la sera chiudeva a chiave in casa lui e i suoi 4 fratelli e poi usciva con la madre. 

Per andare a ballare il tango? Per passar 2 ore spensierate all’apericena? No. L’accompagnava sulla statale a battere. Tutte le sere, per anni. Fino a quando la poveretta non ce l’ha fatta più e ha abbandonato marito,  figli e la fila di camionisti che per anni avevano assistito al suo tormento.

Troppo piccolo il paese, troppo grandi i pettegolezzi perché lui non ne abbia mai saputo nulla. Ma ha avuto il coraggio di non andarsene e la dignità di trovarsi un lavoro onesto. 

Chi se ne frega se non è gentile. Che m’importa se non mi sorride. E’ già bravo a non essersi attaccato a una bottiglia. Forse al posto suo me ne starei sul divano, ubriaca, a guardare il TG4 in replica.  Chi può dirlo.

Non credo che le difficoltà passate possano giustificare il presente di nessuno, siamo sempre e solo quello che decidiamo di essere. Ogni giorno. Sono allergica ai pietismi, intollerante ai buonismi e la compassione facile mi fa venir le rughe.

Perché lo faccio allora? Perché sono gentile con lui?

Perché magari non gliene frega niente, perché probabilmente non se ne accorge nemmeno, ma mi piace credere di potergli dare qualcosa che non ha mai avuto: qualcosa gratis, qualcosa che non si è dovuto guadagnare.

Magari da stornare dal debito che la vita ha con lui.

venerdì 22 febbraio 2013

QUELLA GENTE LA’



Lavoro in un bel posto. Dico davvero. Gente simpatica, divertente. Un Capissimo che definire informale è poco. Solo oggi, incrociando me e le mie colleghe all’uscita se n’è uscito con: “Mamma che belle ragazze che c’ho.. avessi 20 anni di meno, tutte e 3 vi tromberei!” 

Anche 50 anni in meno, ma non stiamo sempre a guardare il pelo. Comunque non diresti mai che gira in elicottero, che mantiene uno skipper, e che ha più case lui di quanti scarpe abbia io. E non parliamo di numeri piccoli, sia chiaro.
L’unico neo di questo lavoro, l’avrò detto 1000 volte, è il capufficio. Più che un uomo una rogna, una zavorra, una colica renale. Simpatico come il portone di un cimitero. Affabile come Polifemo. E poi litiga con tutti. Con il postino, il personale, con la macchinetta del caffè. 

Adesso ha intrapreso una personale crociata contro i lavori in corso sotto l’ufficio. Non è che abbia tutti i torti, sia chiaro, perché non puoi chiudere 500 metri di strada da oltre un mese. Si stanno affossando attività, mettendo in difficoltà chi in quella zona ci abita e ci lavora. E con questa storia di appalti e subappalti sarebbe anche ora di finirla. Per questo capisco che vedere solo 2 operai – e sottolineo 2 operai – che ci lavorano, faccia salire la pressione. Condivido invece molto meno il suo modo di affrontare la questione.

Ti dà fastidio il fanghino che sollevi con la bici e hai paura che la polvere ti opacizzi lo zainetto porta pc che ti metti sulle spalle? Fai un reclamo in Comune. Ti dà fastidio la ruspa con la benna imbizzarrita che sembra volerti spalmare sul selciato te e la tua bici? Fatti delle domande e chiediti perché il mondo ce l’ha con te. Invece no. Lui non si pone domande e soprattutto non le pone agli altri. Perché lui “non si mette al livello di quella gente là”. Inutile dire che la categoria “quella gente là” comprende operai, extracomunitari e chiunque non possa esibire una laurea. Perché dietro quell’aria da fighetto urbano si nasconde una malcelata nostalgia per elmi cornuti, clave, forconi e quant’altro necessario per ricacciare indietro l’invasore becero e ignorante.

Per questo stamattina l’abbiamo improvvisamente visto rianimarsi; un mega suv parcheggiato in mezzo alla strada, un telefonino che squillava con insistenza e un omone apparentemente indaffarato: in poche parole, un capo. Un suo simile. Uno con cui parlare.

Per farvi capire quanto fosse alta la sua stima, vi dico solo che per parlargli non si è nemmeno messo a  urlare dalla finestra, come fa di solito, ma è addiruttura sceso nella via. È o non è un gentiluomo?

Gli ha spiegato le sue ragioni, gli ha motivato le sue proteste, gli ha mostrato la bici inzaccherata.

Il capo cantiere ha continuato ad annuire – ma soprattutto a telefonare – concludendo il tutto con una calorosa pacca sulle spalle (uno spintone?), e salutandolo con un cordialissimo:
“Ho capito tutto dottò, ma adesso levati di ‘ulo che m’hai già scassato ‘a minch...”.

Povero capufficio, vita dura per gli insofferenti. 

Mi sa che il file “quella gente là” s’è allargato un altro po’.

giovedì 21 febbraio 2013

JUMPING THE LINE



“Se metti paletti troppo alti intorno a te, finirai per restarne prigioniera tu per prima.”, mi ha ripetuto per anni la mia amica Monica. 

Io lì per lì reagivo a molla, come sempre, ma siccome di lei avevo grande stima, poi ci pensavo su. E per quanto la cosa mi bruciasse, dovevo riconoscere che le sue parole non erano del tutto campate in aria. 

Oddio, non è che io abbia mai tenuto lontane le persone con il bastone, questo proprio no, diciamo che ero selettiva, ecco. Lo sono sempre stata. Non tanto nelle amicizie, dato che a me l’essere umano non smette mai di affascinare, quanto piuttosto nella sfera sentimentale.

Uno non andava bene perché parlava troppo, l’altro no perché parlava troppo poco, quell’altro ancora no perché il pallone se lo portava via: insomma, una principessa sul pisello. O una Pausini che aspettava il suo Marco alla stazione, se preferite. 

Ma non è che cercassi solo quelli belli, ricchi e fichi che mi portassero sulla loro isola ai Caraibi, tutt’altro.

La verità era che avevo paura: quando cresci in una famiglia come la mia, impari presto che i sentimenti possono fare molto male. Se dovevo patire, volevo che almeno ne fosse valsa la pena. Non volevo essere solo io a perderci la testa.

Poi negli anni di mazzate ne ho date, altrettante ne ho prese, perché sbagliare sbagliamo tutti. Ma ogni volta c’era la convinzione che potesse essere qualcosa di bello e di unico. Non erano mai storie nate già finite.

Mentirei però se dicessi di non essermi mai sentita inadeguata, diversa. Sarei bugiarda a non ammettere di aver rosicato nel sentir raccontare di notti al chiaro di luna davanti ad occhi di brace conosciuti 2 ore prima. Ma ho sempre dovuto fare i conti con me stessa e non puoi chiedere ad un gatto di diventare un leone.

Oggi all’aperitivo ho rivisto Monica. Un divorzio alle spalle, una separazione recente e un nuovo figlio in arrivo. Che crescerà senza padre, perché lui, a 40 anni, non si sente ancora pronto per le responsabilità.

Mi sono tornate in mente le sue parole di quand’eravamo ragazze, la sua spensieratezza di allora così diversa dalla rassegnazione di oggi. 

E al di là del dispiacere per lei, ho capito con chiarezza una cosa: se metti l’asticella delle aspettative troppo in basso, anche  i vermi potranno  passare. E poi tocca anche disinfestare. Ma ne vale davvero la pena?