Se mi
chiedessero cosa non vorrei mai dover fare per lavoro, non avrei dubbi e
risponderei d’istinto: quello che vorrei non dover fare mai, ma proprio mai per
nessun motivo al mondo, nemmeno per aver salva la vita, è parlare in pubblico.
Non dovrei nemmeno pensarci, non dovrei riflettere, perché lo so già che il mio
dramma è quello. Eppure, porca pierina, vorrei tanto sapere perché in ogni
lavoro in cui mi imbarco mi capita di doverlo fare. Anche in quello attuale, per
dire, dove il mio livello di importanza nella gerarchia aziendale è di mezza
tacca superiore al toner della laser ma decisamente inferiore alle cialde del
deca. Nonostante ciò, Il Dirigente, cioè l’irresponsabile che mi ha assunto,
(contro ogni logica), proprio ieri se ne esce con questa bella trovata:
“Senti
ma… è una settimana che lavoriamo su questa cosa, in fin dei conti sono
questioni puramente operative, perché la relazione non la presenti tu?”
Come
perché. Perché son cretina, ecco perché. Perché un conto è far la spavalda
mettendo giù 2 cifre, 3 regolette sul chi fa cosa, altro discorso è
parlare (cioè aprir la bocca, dire delle cose sensate e soprattutto
motivarle) davanti a 10 sconosciuti; ma fossero anche conosciuti, amici intimi,
vicini, parenti o anche scimmie, sarebbe uguale. Oltre le 4 persone vado nel
panico, non se ne parla nemmeno.
Tiro
fuori mille scuse, gli racconto che ci sono già passata, che in quelle occasioni
mi viene una voce in falsetto che sembro una gallina nel momento esatto in cui
le viene tirato il collo. Gli mimo anche l’azione, casomai non fosse chiaro. Gli
dico che rido senza motivo, che parlo senza sosta. Che potrei piangere o non
trovare le parole. Magari svenire. Che in quelle situazioni non so cogliere le
reazioni delle persone e gli racconto di quella volta, durante una riunione, in
cui ad uno che continuava a chiedere irritato “Ma dove sta scritto che è come
dice lei? Ma dove sono questi dati???” ho risposto beffarda schiaffandogli i
fogli sotto il naso:
“Stanno qua stanno, basta leggere.” E solo dopo ho scoperto che
questo era cieco. Non me n’ero accorta? No, al mio arrivo era già seduto. E
ricordo anche di aver pensato: Ma chi è ‘st’imbecille con gli occhiali
scuri?
Ma Il
Dirigente ride, è irremovibile.
“Mi
serve per prendere tempo, tu li intrattieni con le questioni operative mentre io
mi lavoro il pezzo grosso che arriva sempre all’ultimo momento. Ce la puoi fare?
Puoi essere il mio diversivo, Michi?”
Sarà
che quando mi guarda con quegli occhioni da papà buono non gli so resistere,
sarà che mi sentirò riconoscente a vita per avermi offerto una possibilità
quando tutti gli altri non lo hanno fatto, sarà che ho esaurito le scuse, ma
alla fine mi arrendo e gli dico di sì.
Naturalmente arrivo alla riunione tranquilla come un vulcano in
eruzione mentre cerco di entrare come posso nel comportamento del “diversivo”.
Mi appoggio prima su una gamba, poi sull’altra, sistemo le mie carte; e
naturalmente nel frattempo cerco di tenere a freno la ridarola, il prurito, la
nausea, le gambe che mi fanno giacomo e la voce che mi fa gnao.
Mi
appoggio al muro con la schiena per tentar di fare la disinvolta, di quella che
i briefing li poccia nel caffelatte ogni mattina, tipo. Ma invece della parete
becco una rientranza, e per non perdere l’equilibrio mi attacco a una tenda. E
naturalmente vien giù tutto, tenda, cordone, bastone compreso, con un rimbombo
da paura. Solo per miracolo riesco a non cadere.
Come
nulla fosse, Il Dirigente (potesse venirgli il cagotto perenne a imperitura
memoria) dice “Prego Michi, comincia pure”. Lo guardo smarrita, pensando che
scherzi, ma è preoccupantemente serio. Lui. Perché tutti gli altri ridono,
sghignazzano, mi chiedono se sto bene. No che non sto bene, cazzarola, vorrei
morire: qualcuno può darmi un pietoso colpo di grazia, per
piacere?
In
qualche modo riesco a fare la mia relazione. Al termine, nessuno ha domande da
fare, ma bella forza, ci fosse stato un cane che mi avesse ascoltato. A fine
riunione mi aspetto che Il Dirigente mi cazzi, ho già pronte le giustificazioni,
invece mi fa:
“Hai
visto che è andato tutto bene? Son riuscito a parlare con il boss. Magari la
prossima volta definiamo meglio il significato di “diversivo”, che ne
dici?”
Che ne dico? Ma vaff….
va’!
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