mercoledì 26 settembre 2012

Io corro

Di solito si va a correre per smaltire qualche chilo in più. Io vado a correre per smaltire mentalmente le cazzate che ho fatto. E siccome ne faccio tante, va da sé che mi devo impegnare molto. E anche così non mi metto mai in pari.
Andando sempre nello stesso posto, incontro sempre le stesse persone. Il più assiduo è Paolo, uno spilungone che corre sulle punte alzando le ginocchia: dev’essere per via delle scarpe tecnologiche imbottite sui talloni, ma a me sembra sempre si stia scottando i piedi.
Adesso che fa un po’ più fresco arriva con una tutina nera tutta fasciata: bella, e soprattutto d’effetto perchè a portarla son rimasti solo lui e Diabolik. Quando gli passo davanti lo guardo, gli sorrido e gli faccio ciao. Anche lui mi sorride, ma prima di salutarmi mi guarda il culo. Comincio a sospettare che mi riconosca da quello.
In realtà io lo so chi è lui, anche se lui di me non si ricorda perchè ci siamo conosciuti in un’altra vita, in un passato che vorrebbe adesso dimenticare. E’ il fratello maggiore di una ragazzina con cui giocavo in cortile, ai bei tempi in cui noi sognavamo un futuro di pane amore e fantasia mentre lui distruggeva il suo presente con bravate di ogni tipo, abusi vari e cotillons.
Adesso pare ne sia uscito, si sia rimesso in forma e sia tornato a vivere. Ha finito per sposare Laura, la ragazza che lo ha aspettato da sempre, ancor prima di aver l’età per rendersene conto. Una che sognava un salotto, 2 cani, un caminetto e lui davanti vestito come Ridge. Solo che lei non è mai stata Brooke e la prenderesti a schiaffi per quanto è ingenua.
Però ormai da un bel po’ Paolo sta filando dritto, sembra quasi aver fatto pace con sé stesso ed esser sceso a patti con il mondo. Guardandolo si ha la sensazione che stia prendendo le distanze dal passato e che cominci finalmente a vivere, ma non come quello che era prima: come la persona che è sempre stata agli occhi di Laura. Che alla fine, ingenua ingenua, ma ha avuto ragione lei.
A volte rimpiango i tempi di quando dopo la partita seguiva la rivincita e poi la bella, e poi la bella della bella. Ma guardando Paolo penso che in fin dei conti quando si perde nella corsa della vita anche una sola rivincita non deve esser poi così male.

 

sabato 22 settembre 2012

E’ che mi vien voglia di far sciopero

Come ti giri la scritta è una sola: aperto sempre, aperto la domenica, siamo sempre aperti etc. Che non so a voi, ma a me legger certe cose fa venire il prurito alla schiena e lacrimare gli occhi.
Perchè l’unico risultato è che se prima non spendevo 1 euro perché non avevo soldi, adesso continuerò a tenermi stretta il portafoglio, ma avrò più tempo per sentirmi una miserabile.
Ma sentimenti personali a parte, il negoziante si dovrà sobbarcare comunque un giorno in più di spese vive e quindi deve aumentare i prezzi. E allora che fa? Taglia le spese, ovvio: luce no (Che faccio, lascio i clienti al buio?), acqua no (Almeno in bagno mi farai andare vero?), riscaldamento nemmeno (Neanche ti rispondo, che c’ho le commesse in canotta anche a Natale), la merce no perché già la pago 1 euro al chilo… e allora dove taglio? Sul costo del personale naturalmente. E allora benvengano i contrattini pro-ripresa come quelli a chiamata, i contratti week end e così via. Tutte cose legalissime, per carità, ma dove la parola “festivo” non è contemplata. In compenso la parola “mancia” va alla grande, che ormai “stipendio” suonava male.
E tutto questo perché? Per la soddisfazione di fare un giro al centro commerciale la domenica. Vuoi mettere? Finalmente potrò comprare il prosciutto che potevo acquistare tutti gli altri giorni della settimana, vedere le vetrine che potevo vedermi negli altri 6 giorni, ma pagando tutto di più perché c’è una giornata in più di spese. Nella speranza che un commesso troppo zelante non mi sputi addosso per l’entusiasmo.
E quindi scusate, ma io faccio sciopero: niente acquisti la domenica, preferisco andare al mare.

venerdì 21 settembre 2012

Urca che burqa

Ieri ho visto un burqa. Non una donna con il burqa, un burqa proprio. Tale è stato lo stupore, che non ho notato nient’altro che quello. Non ho intravvisto chi lo indossasse, né le movenze, niente di niente. Perché un conto è vedere un burqa alla tv, un conto è trovartelo al centro commerciale. E la sorpresa è stata totale.
Oggi raccontavo l’episodio alla mia amica Sere incontrata per caso in un negozio. “Coperta dalla testa ai piedi – dico - ma ti rendi conto?!”, Non che lei mi badi mai molto. Cercava un abito per un matrimonio (non il suo) e mi rispondeva uh uh ogni tanto.
“Perché non metti giù quel telefono?!”, le chiedo vedendola impacciata nei movimenti.
“E’ che se Renato chiama e non rispondo al primo squillo succede di tutto…” Vabbè.
Continuo con la mia manfrina sulle donne, sull’isolamento, la sottomissione etc.
Lei prova un vestito, poi un altro e poi un altro ancora. E il telefono continua a suonare.
“Sì, sono ancora qui – risponde – tra un po’ torno, non ti preoccupare”.
“Senti, ma ci vai all’addio al nubilato?”, chiedo.
“No – fa lei – ho rinunciato. Sai, a Renato non fa piacere che io vada tanto in giro e allora…”
“Allora che?”, chiedo.
“Allora preferisco non dargli un dispiacere.” Faccio fatica a capire come un’uscita in compagnia possa trasformarsi in un dispiacere per qualcuno, ma lascio perdere.
“Ma fino ai piedi capisci? Non le si vedevano nemmeno gli occhi!”, continuo. E il telefono squilla ancora.
“Massì sono con la Michi. Sì, quella mora… massì, ti ho detto di sì. E va beneee…, - sospira e mi passa il telefono – Toh prendi. E’ Renato che vuole la conferma che io sia con te.”
Titubante prendo il telefono e rispondo a Renato. Due parole in croce tanto per tranquillizzarlo. Quando chiudo la conversazione guardo fisso la mia amica.
“Non è che mi controlli… - si giustifica – è che sta attraversando un brutto periodo. Lui non è come pensi… lui è … un uomo problematico, ecco.”
E allora capisco. Lei non ha bisogno di un vestito, ha bisogno di un bel paio di scarpe: basse, leggere e soprattutto comode: per scappare via da quel Renato lì, il più lontano possibile da lui e da tutto quello che rappresenta.
Perchè un uomo problematico, problematico lo è di sicuro, ma difficilmente è un uomo. Di sicuro è una palla al piede.
E mi ritrovo a chiedermi se la sagoma col burqa appartenga davvero ad un altro mondo.

 

mercoledì 5 settembre 2012

Un giorno per caso



Un giorno succede che sei di corsa, distratta da mille pensieri e senza pensare dai un po’ di latte a due micini arrivati chissà come nel tuo giardino. Ma mica per compassione, giusto così, in modo automatico e senza pensarci più. Perché non hai tempo, perché non hai voglia e soprattutto perché di affetti cui badare ne hai fin troppi.
Poi succede che il latte glielo dai ancora e poi ancora. Ed è così che ti frega la vita. Ti prende a tradimento quando sei distratta e ti lascia dentro una sensazione, una percezione indefinita. Quel senso di calore che ti avvolge quando vedi i gatti e loro vedono te, riconoscendo l’uno nell’altro quella sensazione un po’ così.
“E’ solo per questa volta”, ti ripeti, pur sapendo che non c’è niente di più definitivo di quello che ritieni essere provvisorio. Perché il definitivo lo cambi, lo vuoi perfetto, ma nella provvisorietà accetti qualsiasi cosa, raccontandoti che la potrai cambiare in qualsiasi momento. E quando ti ricordi che tu di gatti non ne hai mai voluto sapere è troppo tardi, ti sei già affezionata.
“Sono convinta che niente succeda per caso – spieghi a tuo marito – mi piace pensare che siano capitati qui per un motivo.”
“Sì, perchè gli diamo da mangiare.”, risponde lui, filosofo.
Per adesso sono serviti solo a farmi discutere con i loro proprietari (si abbandonano così gli animali?) e a rosicchiarmi 2 paia di infradito, ma io ho fiducia. Prima o poi sarò illuminata. Per adesso sto ancora a chiedermi se sono io che ho trovato loro o se sono stati loro a trovare me.
“Mettigli almeno un nome evocativo, che abbia un significato”, propone allora mio marito.
Li abbiamo chiamati Batman e Robin: evocativo lo è di sicuro (George Clooney, tutina nera… presente? Ecco.) ed il significato… il significato è che se uno ha una cultura, è giusto che la mostri. Ma se invece è cretino, è giusto che si sappia.

domenica 2 settembre 2012

No non è vero



Non è vero che ce l’ho con i medici di base. Oddio, magari sì, ma solo un pochino. Voglio dire, li manderei un po’ in miniera, giusto un paio d’anni, facciamo 3, via, ma non è che gli voglio male.
E’ che mi stanno sul fegato. Perché non è possibile, sottolineo NON E’ POSSIBILE che se uno ha bisogno loro non siano mai e dico mai disponibili. Mi va bene che ricevano per appuntamento (!), va bene che per andarci ti devi prendere un giorno di ferie, va bene che non ti visitino mai manco avessi l’ebola, ma che se ti senti poco bene alle 3.00 del pomeriggio non ti risponda nessuno me le fa altamente girare a giostra.
Succede che mia mamma stia male (tanto per non perdere le vecchie abitudini), ma di un male vero, rabbioso, di quelli che ti fanno chiedere pietà. Ti attacchi allora al telefono del tuo medico cercando aiuto e comprensione e lui naturalmente non ti risponde. Chiami allora il 118, dove una cortesissima signorina ti ricorda che la Guardia Medica è disponibile solo dalle 20.00 in poi. Prima di quell’ora può solo mandarti un’ambulanza.
“Otto ore di pronto soccorso prima che qualcuno le dia due pastiglie e la rimandi a casa?” mi permetto di chiedere, conoscendo già la trama di un film visto fin troppe volte in questi ultimi mesi.
“Si deve rivolgere al medico di base.”, è la sua fredda risposta. Obietti che ci hai già provato e riprovato, ma senza risultato.
“Ma il medico di base DEVE essere disponibile – sentenzia – lo richiami e faccia la voce grossa.”
Ed è quello che faccio: faccio la voce grossa con il beep del fax che si inserisce nella linea telefonica dell’ambulatorio, alzo la voce con la signorina che mi informa che l’utente non è in quel momento raggiungibile e già che ci sono faccio l’arrogante anche con il telefono di casa sua che suona a vuoto. Quando arrivo davanti alla sua abitazione e vedo il cane mi impietosisco invece un po’ e non ho il coraggio di alzar la voce; me la prendo invece con il campanello che a momenti tiro giù dalla parete. Del dottore nemmeno l’ombra. E mia mamma si contorce dai dolori.
Passo in farmacia e spiego il problema. “Mi spiace ma non posso aiutarti, è complicato…”
No che non è complicato: tu vendi le medicine e io le compro. Andare su Marte è complicato, arrivare a fine mese è complicato, fare il tuo lavoro dovrebbe essere la cosa più naturale del mondo. Ma farei prima ad andare su Marte.
Alla fine, alle 19.30, riesco finalmente a parlare con il dottore, che chiama la farmacista che mi dà le medicine. Il tutto si risolve con una telefonata tra i due e una ricetta inviata via fax. Costata a mia mamma un pomeriggio di dolori atroci. Evitabile, evitabilissimo, se il medico avesse risposto a quel caspita di telefono.
No, non ce l’ho con i medici di base. Solo li impalerei con l’ombrellone, ma così, per scherzo. E tanto per rendere il gioco più divertente vorrei che i dottori venissero pagati in base alle visite che fanno e non al numero di pazienti che hanno: hai visto mai che non ritrovino la giusta motivazione professionale. O che cambino mestiere quelli che proprio non ci son portati: per me va bene uguale.