lunedì 27 agosto 2012

Te lo insegno io come ci si veste


Odio il lunedì. Originale vero? E’ che arrivo stanca da fine settimana di sole e di mare, mi becco subito la riunione con i capi capissimi (vecchi e nuovi), sono ostaggio di racconti vacanzieri di colleghi e affini: il tutto mentre ho ancora i fiori del cuscino tatuati sulla fronte. Se poi il lunedì, come oggi, coincide anche con il rientro da ben 4 giorni di ferie, si può facilmente immaginare che qui si parla di sforzi mica da ridere.
C’è da dire che i nuovi capi una cosa bella l’han fatta: viste le temperature, hanno caldamente consigliato un abbigliamento più informale. Mica per farci star comodi, sia chiaro, più che altro perché a tagliar le spese magari a fine anno si risparmia 1 euro.
Il personale femminile ha colto al volo il suggerimento chiudendo nell’armadio tutto quello che è più lungo di 30 cm, anche in considerazione della diffusissima abitudine di concludere la giornata in spiaggia. Gli uomini hanno reagito invece un po’ più timidamente, vale a dire con la rinuncia alla cravatta e nulla più. Che già la polo griffatissima con il pantalone elegante sembrava quasi un filino troppo spregiudicata. Per dire.
E’ che noi siamo provinciali, si sa. Che ne sappiamo del tie-free, del casual chic o del comfort fit cui si accennava nelle riunioni? Niente. E lo ha brillantemente dimostrato il mio ex capufficio (uno nato “imparato”, tanto per intenderci), che ha interpretato a modo suo il consiglio presentandosi con bermuda militari e camicia giallo pannocchia con tanto di disegnini a aereoplanini. Tra 10 persone in abito scuro risplendeva più della Cometa Halley.
Il sandalo ho volutamente evitato di guardarlo. Ho preferito concentrarmi invece sulle facce allibite di chi non poteva credere a quello che aveva davanti.
E io, dall’alto del mio tubino old fashion, me la sono goduta come una giuggiola. Soprattutto perché quando mi hanno assunto lui proprio lui continuava a ripetermi, “Tu vieni dal marketing, non so se riuscirai ad adattarti alla formalità di questo ambiente…”.
Magari domani glielo ricordo. E’ che prima devo smettere di ridere.

domenica 26 agosto 2012

Come ti passo il martedì mattina


Ho perso la tesserina del bancomat. Anche la carta di credito. E vabbè.
Dopo aver telefonato alla banca vado dai Carabinieri per presentare denuncia di smarrimento.
E’ proprio vicino a casa mia. Che bello penso, 10 minuti e me la cavo. Era meglio se credevo alla Befana.
Suono, entro e mi accoglie una bella porta grande, a vetri. Ma che lusso, penso dentro di me, e mi sento accolta come nel palazzo reale.
“Ma che ci fa lei qui? – mi blocca un vocione alle mie spalle – Ma chi l’ha fatta entrare??”
Vergognandomi come una ladra, (che io in certe cose c’ho un po’ la coda di paglia), spiego quel che sono venuta a fare.
“Ma non l’ha visto il cartello?!” – sbotta il tipo un filino troppo scortese per i miei gusti e mi indica il muro a fianco, dove, ad altezza culo ginocchia, un foglietto di quaderno, scritto a pennarello nero in corpo 11, si legge un “Accomodarsi in saletta”, dove per saletta, scopro dopo, si intende un’intercapedine dove più che “accomodarsi” delle persone ci potrebbero passare i tubi del gas.
Potrei polemizzare sul fatto che una caserma costruita apposta (e non ricavata in un palazzo vecchio, per dire), potrebbe avere lo sportello per il pubblico in vista e non nascosto, ma fa già caldo e poi non si può sempre star lì a guardare il pelo.
Gli spiego quello che devo fare e lui comincia a scrivere.
“Cognome e nome?”
Glielo dico. Glielo ripeto. Glielo mostro sul documento. Che vabbè che c’ho un cognome un po’ lungo, ma non è che ci possiamo far la notte su questa cosa. Alla fine, seguendo il cognome con il dito sulla carta d’identità, riesce a riportarlo sul computer e tiriamo entrambi un respiro di sollievo.
“L’indirizzo è Via N.****** virgola 22?”
“Sì, Via Nino ****** numero 22.”
“Ah. E’ cambiato?”
Penso voglia fare lo spiritoso ma la sua faccia è preoccupantemente seria.
“Telefono?”
Glielo detto, poi ci ripenso e dico, “Meglio che le dia il cellulare, tanto a casa non ci siamo mai…”
“Che c’entra – mica è per chiamarla – è solo perché il programma me lo richiede.”
Cretina che sono.
Ad un certo punto vedo che armeggia con il computer. Mi guarda. Si passa nervosamente le dita tra i capelli. Mi guarda di nuovo. Comincio a preoccuparmi: cosa vedrà mai in quel computer che io non so? Qualche mia omonima ha sterminato una famiglia e cotto il cane in forno? Qualcuno che mi somiglia avrà mica rubato una decapottabile e sarà in giro a far fuori i nani da giardino? Non si può mai sapere. Quando prende in mano la cornetta comincio a deglutire. Chiede rinforzi, dopo 10 minuti arriva il secondo. Dopo un quarto d’ora arriva il terzo. Viene fuori che la tesserina ha troppi numeri, non ci stanno nel computer.
“Ma lei è sicura che i numeri del bancomat siano questi?!” sbotta l’ultimo.
“Certo che sì!”, rispondo e gli mostro lo stampato della banca.”
“Ma lei è sicura che la banca le abbia dato i numeri giusti?” – chiede con l’aria di chi quelle come me se le mangia a colazione. Comincio a chiedermi di quanti membri sia composta la sua famiglia e se il suo cane possa entrare nel forno.
“Non ho fatto un’indagine – spiego calma – ma i numeri sono questi, vede?” e gli mostro un’altra tesserina del bancomat.
“Ahhhhhh, ma allora l’ha ritrovata!”, esclama sollevato.
Eccerto. È che sono una precisina: quando perdo una cosa mi piace che rimanga sempre qualcosa di scritto. Di solito vado da un notaio, ma oggi è chiuso. Che almeno venga messo a verbale.
Dopo aver versato sudore e lacrime riusciamo in qualche modo a venirne fuori, e siamo tutti sollevati: io e tutte le forze dell’ordine presenti. Nell’aria, la soddisfazione di un lavoro ben fatto.
Dentro di me, il rammarico che nel 3000 si debba ancora perdere tempo con ‘ste menate, quando dovrebbe essere sufficiente una telefonata al numero verde. E mi vien già l’ansia per quando dovrò ritirare la nuova tesserina in banca.

giovedì 23 agosto 2012

Quando meno te lo aspetti

La prima volta che ho visto Gianluca è stato nel cortiletto di casa sua: ancora bimbetto, tentava di gonfiarsi il pisello con una pistola ad acqua per vedere se diventava più grosso, e io, entusiasta, mi ero unita subito a lui nell’esperimento. (Per chi se lo chiedesse: NON FUNZIONA, non serve che vi precipitiate al negozietto a comprarvi il Superliquidator da 2 litri, che già vi ho visti partire a razzo.)
Grazie a Gianluca avevo potuto partecipare ai giochi dei maschi; per riconoscenza non gli avevo tolto il saluto nel periodo in cui si faceva chiamare Brian, come quelli delle boy band.
Quando alle medie alle superiori mi ha vista con il mio primo reggiseno mentre esibivo tutta orgogliosa le mie due noccioline, se n’è uscito con un: “Toh! Ma che t’è spuntato lì…. T’ha punto un ape?!” e giù a ridere. Il pirla.
Ci siamo urlati le peggiori cose una sera a Madrid, perché l’ansia provata doveva essere sfogata in qualche modo. “Torno subito” aveva detto. Ed era ricomparso solo 5 ore dopo; con i boxer in vista, niente pantaloni, un cappotto visibilmente non suo ed un cappello a cilindro con la pubblicità di una birra.
“Amici!!! Che bello rivedervi!” – aveva esclamato felice sfoderando 2 bottiglie di vino dalle tasche.
Da ammazzarlo a forchettate. Tipico suo: il pensiero che ci fossimo consumati le budella per la preoccupazione non l’aveva nemmeno sfiorato.
Mi ha preso in giro per giorni quando ho pianto tutte le mie lacrime per delle sciocchezze, ma era lì con me quando non son riuscita a piangere per delle cose serie.
Oggi mi dice che pensa di accettare un lavoro all’estero. Che c’è crisi, potrebbe non esserci un’altra occasione. Che guadagnerà un sacco di soldi e poi vuoi mettere l’esperienza. Io lo ascolto, ma non lo sento più. Non voglio sentire.
“Non sei contenta? – chiede – Proprio tu?”.
Ma io lo sono. Sono contenta. So che si merita il meglio. So che lo avrà, e non solo nel lavoro, perché lui è così, impossibile non volergli bene.
Ma io di quel meglio non farò parte, ed è questo che mi uccide. Il sapere che lui non sarà più lì per me mi lascia un senso di abbandono. Che il mio mondo e il suo non saranno più lo stesso è un pensiero inaccettabile.
E’ un atteggiamento egoista, lo so, irrazionale e puerile. Ma è difficile rimanere obiettivi e distaccati quando senti che stai per perdere una parte importante di te.
E mi chiedo come sia possibile che la felicità di qualcuno a cui si vuole bene possa fare così male.

martedì 21 agosto 2012

The rise and fall

In piscina ho incontrato Aldo, uno che conosco da tempo ma che non vedevo da un po’, uno di quelli “che ce l’ha fatta”. Per un po’ ho lavorato con lui a un progetto, insieme abbiamo anche vinto un premio a livello nazionale. Niente Nobel, niente Pulitzer, ma nel settore ce la siamo tirata che di più non si poteva. Io ne ho parlato per settimane, ho mostrato le foto della premiazione a mia madre, mi veniva un groppo in gola ripensando al discorso di ringraziamento. Ho trascorso mesi su quel progetto, ho sudato sangue, gli ho dedicato tutto il mio tempo e sacrificato tutte le mie energie. Credevo fosse importante. Era importante. Ma vendevamo solo sogni e forse in quei sogni abbiamo finito per crederci davvero. Proprio per questo il risveglio è stato brusco. Io ho perso il mio lavoro e di quel premio vinto non se ne ricorda più nessuno. Lui, il grande Aldo, l’ho perso di vista. Fino ad oggi.
Mi saluta ma sembra imbarazzato, non mi guarda negli occhi. Nessuna traccia della baldanza per la quale era famoso. Vorrei dirgli che non gli porto rancore per non aver risposto alle mie telefonate quando mendicavo un colloquio; non è stato l’unico, purtroppo, e da tempo ho accantonato quel tipo di risentimento. Parlo senza sosta, gli chiedo di questo, di quello e di quell’altro ancora.
“Lavoro qui.”, m’interrompe. Qui dove? Penso. Non vedo mega uffici, segretarie sorridenti, targhe e trofei. Solo bambini urlanti e mamme che li riacciuffano al volo.
“Lavoro qui.”, ripete piano. Finalmente capisco. Lavora al bar della piscina.
Non me l’aspettavo ma non ho bisogno di chiedere altro, so come vanno queste cose. Un giorno sei un esempio per tutti, quasi una leggenda nel suo caso, e il giorno dopo sei solo un costo e un peso per l’azienda. Non ci sono domande che vorrei fargli, solo cose che vorrei dirgli: che perdere il lavoro non è la fine del mondo, per esempio, che un’occasione arriva sempre. L’importante è dimenticarsi di chi si era prima ed essere disponibili a ricominciare da zero. Vorrei dirgli questo e molto altro, invece mi siedo e gli chiedo un caffè.
Lui tace, non dice nulla, ma sento che il peggio è passato.
Quando bevo il primo sorso, mi scappa un sorriso. Perché non è un caffè qualsiasi, è un signor caffè. D’altra parte, lo ha fatto Aldo. E quando uno è un grande, è un grande qualsiasi cosa faccia. E’ solo lo stipendio che cambia. Ma come diceva lui, “I dettagli fanno la differenza, ma non potranno mai essere la sostanza”.
Chissà se la pensa ancora così.